Pink Floyd

The Endless River

Recensione
Pubblicato il 28/11/2014
Voto: 8/10

Ascoltare questo nuovo capitolo dell’epopea floydiana può provocare due reazioni pari e contrarie in egual misura. In effetti, fin dall’inizio, sono stato combattuto sul da farsi. Lasciarsi rapire dalle emozioni spontanee generate dal suono, oppure ragionare freddamente e in modo asettico sui contenuti.

Iniziamo dicendo che sicuramente il marchio di fabbrica Pink Floyd c’è ed è inconfondibile, fatto come sempre di eleganza e misura, intesa come senso artistico della bellezza. Mai Kitsch, mai sovrabbondanti, mai intensi senza equilibrio. Il problema vero è parlare di un disco che un disco non è. La dico in maniera diretta e cruda: The Endless River è architettonicamente costruito come un concept album, ma il tema questa volta non è uno specifico argomento, ma la celebrazione della loro stessa carriera. Pur essendo ben noto che questo disco provenisse da un altro tempo (a parte poche parti tra cui l’unica traccia cantata con le parole scritte dalla coniuge Gilmour), inteso come materiale registrato e poi scartato durante le sessions di Division Bell, è innegabile che dopo un certo numero di ascolti si riesca a scorgere un filo logico nell’intero lavoro. Come dei titoli di coda, come un banchetto cui sono tutti chiamati a partecipare (fans, addetti ai lavori e gli stessi membri della band) questo suono mi piace immaginarlo come un compendio glorioso e gioioso di tutte le tappe musicali della loro strepitosa avventura professionale e non. Certo non manca anche, si può dire, la parte commemorativa rivolta a Richard Wright, ma davvero la festa prevale sul ricordo e la commozione.

Quella che viene scambiata dai più per mera e semplice autocitazione, invece a me piace immaginarla come una carrellata di singoli omaggi a singoli album del loro passato. E dirò di più: essendo spesso ognuno di questi fortemente caratterizzati dallo spirito e dall’anima di ogni singolo membro della band, oserei dire che la dedica finale è rivolta a ognuno di loro. Così i richiami a Wish were here in apertura (It’s What We Do) sembrano un omaggio a Syd Barrett, i richiami a Saucerful of Secrets e Meddle (Skins e Sum ) lo sono tra gli altri per Nick Mason come lo sono quelli per the Wall (Allons-Y) e Final Cut per Waters. David Gilmour è la regia occulta di tutto questo tenendo per se il capitolo conclusivo del capitolo finale, cantando i versi della moglie, ma parlando al cuore. Discorso a parte per Richard Wright il primo invitato a questa rimpatriata e lo si capisce per il carattere generale dell’opera, dove si esaltano le parti elettroniche con i sintetizzatori, dove si celebra il lavoro mai dato alle stampe dai tempi di Division Bell. Tutto questo in modo organico è andato a sfociare in un ambient di fulgida luce tra toni solenni e passaggi austeri come forse il compagno scomparso avrebbe voluto. Un album forse più simile al suo modo di sentire e vedere la musica. Non è un mistero che ai tempi le registrazioni parevano fossero destinate a un doppio album (cosa gradita a Wright) e solo in un secondo tempo si optò per sintetizzare e tagliare parte del materiale in un unico disco. L’intera nuova creazione, pur partendo da vecchie incisioni selezionate tra le tante da Gilmour e Mason, si è arricchita di nuove sovra incisioni di Phil Manzanera, consegnandoci un suono, oserei dire, senza tempo.

Continuando con il gioco delle autocitazioni simboliche vorrei ancora fare un cenno ad Anisina. Un pezzo scritto dal solo Gilmour, giro di piano lineare, ma di atmosfera che a molti ricorda Us and them. Ci si potrebbe fermare qui, ma scavando un minimo si scoprirebbe che probabilmente Anisina è un nome legato alle Marche (intesa come regione italiana). E allora? Anisina Olivieri, un liquore a base di anice, è forse il ricordo di una vacanza italiana o un regalo particolarmente gradito a Wright? E’ facile capire come il brano sia verosimilmente la dedica personale di David. Ma c’è di più. Perché fare una citazione così riconoscibile al limite del plagio? “Us and them” mi pare un chiaro riferimento all’unione magica del trio Gilmour/Wright/Mason (Us) più volte ribadita anche negli stralci vocali dei protagonisti in appendice della prima traccia Things Left Unsaid - side 1. E gli altri chi sono (and them)? Decidete voi.

Insomma non è facile giudicare un disco secondi i tradizionali parametri, sapendo che questo ad esempio non poteva per ragioni morfologiche, storiche e anagrafiche aggiungere niente di nuovo alla loro fama di fare, sempre e comunque, eccellenza. Bisogna appellarsi quindi al sentimento, perché no anche alla nostalgia e alla funzione vera di questo lavoro prima di definirlo ridondante, superfluo o peggio ancora furbo, come se alla loro età i “Floyd” avessero ancora bisogno di soldi. Siamo di fronte a un qualcosa che ha comunque la grande qualità, di essere discreto, soffuso, mai invadente e soprattutto disarmante come una voce famigliare consolatoria. Una voce quella vera che, come detto, non si ritaglia il ruolo di protagonista lasciando il compito di emozionarci ai brani strumentali. E ci riescono benissimo facendoci vedere la nostra anima con la fenditura puntuale e profonda di un apriscatole. E’ un susseguirsi di scatti fotografici, un’opera di taglio e cucito che trova in ogni tappa il suo posto unico proprio come in un montaggio cinematografico fatto di singole azioni. Tutto questo si conclude con la famosa Lourder than Words primo singolo estratto e unica canzone “parlata” della serie. Il testo è eloquente dello spirito e del motivo vero che hanno portato David Gilmour e Nick Mason a licenziare l’ennesimo album dopo ventanni. Ed è questa la cosa più sincera che ci donano il duo superstite: una confessione libera ed emozionata che mette a nudo le cose più importanti della vita e che da un senso diverso all’intera operazione, alla struttura stessa del disco. Un epitaffio vero, questa volta, suonato e raccontato dalle parole scritte da Polly Samson in un crescendo di toccanti ma semplici particolari della vita di ognuno di noi. Mi ha colpito il sentir parlare di un vecchio paio di scarpe, del tuo blues preferito, perché alla fine la sintonia con un amico è data dai dettagli del quotidiano prima ancora che dalle “affinità elettive”. Ed è lì in quei frangenti, mentre si fa un’azione normalissima, che scattano i sentimenti più profondi , diventati a distanza di tempo ricordi. Ma c’è un però. Nella versione Deluxe Edition c’è ancora lo spazio per un ultimo brano Nervana che per definizione, architettura stilistica e grandeur appare come la rinascita dell’araba fenice dalle sue ceneri. Un messaggio di continua speranza dopo il rito purificatore dell’apocalisse.

Ultima nota per la copertina: alcuni sono rimasti perplessi, altri ci hanno visto il tipico DNA floydiano soprattutto di stampo “Gilmouriano”. Personalmente l’immagine mi rimanda a una sorta di Caronte, questa volta con respiro illuminato e speranzoso. Una figura positiva e per certi versi rassicurante. Un ulteriore indizio sul fatto che l’atto finale non deve lasciare una coda malinconica, ma la certezza che stiamo celebrando il mito. Quel mito che la loro modestia non ammetterà mai.

Per i detrattori che disconoscono l’utilità di questo nuovo e conclusivo episodio, debbo dire con altrettanta convinzione la mia opinione. Sarà forse vero che della “ciccia” non si vede neanche più l’ombra, e che in una lotta senza quartiere tra fazioni (“Barrettiani”, “Watersiani” e”Gilmouriani”) c’è chi ha decretato la morte dei Pink Floyd già dopo Final Cut o addirittura dopo The Dark side of the moon, ma alla fine mi sembra doveroso ammettere che anche il brodo è molto buono, anzi per certi versi delicato al punto giusto o come si dice del maiale non si butta via niente. Al cospetto del genio di Syd Barrett e del talento di Roger Waters, i due “operai” rimasti, con le reminiscenze del “Gentle Soul” ( così definito da Gilmour stesso) hanno avuto il merito e la forza di portare l’arte oltre il tempo per immortalarla. Alla fine si ripropone il dubbio amletico: “Essere o non essere?” Una cosa è certa: questo disco più lo ascolto e più mi piace. In genere è l'effetto che fanno le cose ben riuscite.

Louder Than Words (2014)
Pink Floyd - The Endless River

Pink Floyd

The Endless River

Cd, 2014
Genere: Rock , Progressivo

Brani:

  • 1) Things Left Unsaid
  • 2) It's What We Do
  • 3) Ebb and Flow
  • 4) Sum
  • 5) Skins
  • 6) Unsung
  • 7) Anisina
  • 8) The Lost Art of Conversation
  • 9) On Noodle Street
  • 10) Night Light
  • 11) Allons-Y (1)
  • 12) Autumn '68
  • 13) Allons-Y (2)
  • 14) Talkin' Hawkin'
  • 15) Calling
  • 16) Eyes to Pearls
  • 17) Surfacing
  • 18) Louder Than Words

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