Stefano Orlandi

I pitochi

Recensione
Pubblicato il 30/09/2017

"Vorrei cantare Verona, ad una certa ora di notte, quando si alza la luna:
quando i boschi addormentati sembra che corrano dentro sogni di barche in cerca di fortuna,
seguendo l'acqua dell'Adige che va in cerca di paesi e città...
o mercanti di lane e pietre, di miserie ne avete viste tante ma il vostro muso è rimasto uguale,
di tante rughe il tempo vi ha segnato, di tante vi ha pulito
e l'Adige passando vi ha baciato e vi ha lavato
poi è tornato al suo posto a sognare altri ponti, altre case, altre città!"

A noi bambini del proletariato veronese degli anni '60 poteva capitare di sentirne parlare in casa dai nostri genitori e alcune sue poesie le trovavamo nella Antologia delle scuole elementari. Berto Barbarani era stato un poeta che aveva messo in versi tutto quel che si poteva della nostra città, le parole in dialetto le capivamo bene, forse non molto il significato, ma le parole si. Mi piacevano: malinconiche, crepuscolari. La sua casa era stata in via Pigna, nei pressi del Duomo e quella enorme pigna di marmo (che donava il nome al quartiere) così posticcia sopra un tronco di colonna all'angolo con via Augusto Verità, la guardavo con curiosità infantile, col timore che potesse staccarsi e cadere proprio quando li vicino passavo io. In quella Antologia dei primi decenni del dopoguerra capitava non di rado di leggere versi che rimandavano al tragico, al drammatico, ad una precarietà della vita che contrastava con l'allora contemporaneo boom economico. La tendenza era a rimuovere. E così, assieme ad altre impressioni ricoperte dal tanto tempo trascorso, qualche suo verso dimenticato è rimasto vivo nel fondo del nostro animo. Uomo dentro il proprio tempo, le sue figure appartengono ad una umanità veronese scomparsa ma la sua poetica è di un verismo disarmante e a leggere i versi de "I Pitochi" par proprio di vederle queste donne e questi uomini immersi nella povertà assoluta, che vagano raminghi per i vicoli della Verona di quel fine Ottocento. "I Pitochi" cioè "I Poveri", quelli che hanno poco o niente, che non contano, gli ultimi (la storia è sempre la stessa) diventavano oggetto per la prima volta dell'interesse di qualche poeta sensibile in quei primi anni di socialismo libertario in Italia. Barbarani fuautore con "I Pitochi" di uno dei primi lodevoli ed ardimentosi saggi di poesia sociale. La miseria di quegli anni non è neppure immaginabile per chi nascerà alcuni decenni dopo e lo stesso dicasi per le ingiustizie e i soprusi impuniti ad opera di chi possedeva un qualche patrimonio verso chi invece non aveva niente.Nelle campagne moltissimi pativano la fame, spesso non c'era che la polenta da mangiare e la pellagra era molto diffusa, nella città degradata pullulava una umanità dolente di miserabili, giovani rachitici, violenti, ingobbiti, straccioni, vecchie curve, giovinette sudicie e nelle osterie l'emigrazione iniziava a diventare un argomento frequente, "I va in Merica" potrebbe essere una lontana antenata di "Amerigo" di Guccini: motivazioni, epoca storica, azione scenica e meta sono gli stessi narrati molti anni dopo da Francesco dove racconta della partenza del prozio Enrico ("Fulminati dai grani di grandine, l'erba dei prati per metà appassita, le vigne bruciate dalla malattia...a stare qua non si mangia, per Dio, bisognerà farlo questo grande passo, se durante l'inverno ghiaccia, poveri noi, ne fa una strage...a ottobre, pieni di fagotti, dopo aver sparlato di tutti i ricchi e bevuto uno in fila all'altro quattro bicchieri...si incamminano!"). Solo una trentina di anni prima Victor Hugo aveva pubblicato I Miserabili, dove descriveva la vita degli strati sociali più umili nella Parigi restaurata. Ecco lo scenario veronese che fa da sfondo ai sonetti de "I Pitochi".

E proprio grazie a sua madre, anche Stefano Orlandi da giovane è rimasto affascinato da questi versi dalle rime così perfette e bell'e pronte da esser messe in musica. E, seppur rispettando le metriche, ha deciso di contaminarli con alcuni dei suoni che lui ha amato nel corso della sua vita, cosicché per esempio "La Strada Poareta" ("La Strada Povera") contiene un accenno di "Desolation row" di Dylan o "Carboneta" è costruita sul giro di accordi di "Famous blue raincoat" così come il finale strumentale di "El gobo" riprende la melodia di "One of us cannot be wrong", ricollegandosi così magistralmente con il suo precedente CD, tributo al Sommo Poeta Ebreo-Canadese del 2004 "Co(m)me trad(u)ire...L.Cohen" realizzato assieme al sottoscritto. Ci sono testi come "El Vecio de la Bancheta" in cui il derelitto barbone, dopo i lontani tempi di gloria con Garibaldi, muore ghiacciato dal freddo la sera di Natale sulla sua panchina proprio come il Monaco Cercatore cantato da Matteo Salvatore nelle sue Puglie e c'è la disgraziata Carboneta, bambina-lavoratrice sfruttata che dopo esser stata violentata da un superiore, lascia al crudele ingranaggio della filanda anche un braccio. E poi c'è la descrizione dello sfratto impietoso di una famigliola in rovina in "San Martin" dove un insensibile proprietario davanti alla donna ammalata e incinta, urlando sentenzia il suo "Lasciate che i figli li facciano i ricchi!" e che si conclude con la gente che assiste sotto una pioggia fine fine, al grido di "Fate strada, che passa un trasloco di stracci". Il disco si apre con quello che viene titolato "Prologo" e che in realtà è da considerarsi un vero e proprio manifesto dell'intera raccolta, dove Barbarani immagina i suoi vari lettori paciosi e sereni seduti al fuoco del camino che sorseggiano del buon vino invecchiato, fumando, con le dispense e le tasche piene senza minimamente darsi pensiero della malora dei poveri e quindi conclude affermando "è a questi che bisogna pensare nei giorni di festa perché a questo mondo il piacere è di aiutarsi". Una ingenua, vagheggiata solidarietà comunque avanguardistica per la società dell'epoca. Anche quella del "bastardo" era una figura allora ricorrente, Barbarani elenca una serie di animali che mettono al mondo con amore e cura i loro cuccioli, mucche con vitellini, pecore con agnellini, cagne spossate, fino al lugarin (una specie di fringuello) tutto attento a che le sue uova non si danneggino, contrapponendovi la figura di questo sfortunato ragazzetto che, mentre il padre gira in carrozza, "Te ne andrai vagabondando per la terra, figlio di nessuno, servitore di tutti". Ne "El Gobo" troviamo un'altra denuncia a chiare lettere: "Quando un povero nasce segnato, non lo chiamano col suo nome di battezzo, ma gobbo, storto, malfatto, invece se è ricco può essere più curvo del palo di sostegno di una vite, guai a dire la verità" e dopo tutta una serie quotidiana di scherni da parte di adulti e bambini e di sogni notturni straordinari di donne innamorate, è infine la polizia a farlo sloggiare dai gradini della chiesa e Barbarani termina il sonetto addirittura con una battuta "A questo mondo neppure i gobbi hanno fortuna!" (sembra un po' un personaggio alla Brassens!). Il cd di Stefano Orlandi è asciutto, essenziale, senza fronzoli: chitarre, armonica a bocca, qualche tocco di fisa, un prodotto cantautorale come si faceva negli anni 70, epoca in cui effettivamente è stato concepito il progetto e a tratteggiarne ulteriormente l'artigianalità, viene coinvolta la sua famiglia, nipotini compresi (i "mostri" come scrive Barbarani e come venivano chiamati i bambini fin nei primi decenni del secolo scorso, da queste parti) a interpretare l'io narrante o narrato che varia nel susseguirsi dei racconti. Orlandi, veronese trapiantato da molti anni in Trentino, ha fatto parte della schiera di cantautori locali a cavallo tra gli anni 70 e 80, ai suoi esordi si esibiva con alcuni amici che poi sono confluiti nei "Tempi Duri" (conosciuti come il gruppo d'esordio di Cristiano De André), ha sempre scritto e tradotto canzoni, anche se mai in maniera professionale.
Stefano Orlandi - I pitochi

Stefano Orlandi

I pitochi

Cd, 2017, Autoproduzione

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