Folco Orselli, outsider da sempre, con “Outside is my side” lo è per scelta
A distanza di quattro anni da “Generi di conforto” (Muso Records/Venus - 2011), Folco Orselli cantautore milanese che iniziò a calcare le scene musicali come componente del duo Caligola, partecipando a Sanremo Giovani nel lontano 1995, è appena tornato con un nuovo affascinante album dal titolo “Outside is my side”, il quinto della sua carriera, ormai sempre più consapevole di essere outsider, indipendente, estraneo, cane sciolto, ma per questo ancor più libero.
La copertina del tuo nuovo disco mostra una porta dischiusa e, sotto questa porta, il titolo "Outside is my side". Perché hai scelto questo disegno e questo titolo in inglese?
E’ una porta che si apre verso l’esterno ed è un invito all’”outsiding”, all’uscire dalle convenzioni, al proclamare la propria indipendenza intellettuale intesa come rifiuto al pecorame del pensiero unico ribassato; un invito al piacere che si prova nel sentirsi investiti della responsabilità di fare ognuno qualcosa per migliorare noi stessi e l’aia in cui viviamo; il rifiuto del modello imperante riaffermando la propria indipendenza, sapendo che dagli “insider” non possiamo aspettarci quasi nulla. Chi sono gli insider? Tutti quelli che hanno costruito e imposto lo sbilanciato ossimoro in cui viviamo, sbilanciato sul fattore negativo. Il titolo “Outside is my side” è anche un omaggio a Woody Guthrie e alla sua "This land is your land”, land intesa come terra fisica e mentale per me.
Il disco si apre con "Legato a un palo della luce", una canzone che musicalmente si stacca molto dalle sonorità del tuo precedente disco, quasi volessi spiazzare l’ascoltatore ... in realtà la canzone si muove quasi su due piani, diversi e contrastanti fra loro un po' come il rapporto che ti unisce e ti divide dalla tua Milano, o sbaglio?
Il titolo esatto è "Legato a un palo della luce / Gattorotto ouverture" e, come suggerisce, è una commistione tra due cose. E’ un cortometraggio in musica. Avevo questi due pezzi nel cassetto da un po’ e, come succede nei cassetti, si sono mischiati, imbastarditi dal tempo e dalle altre cose abbandonate con loro in un luogo chiuso e piccolo. L’ho aperto e li ho raccolti smunti ma ancora vivi. Li ho portati a casa di Enzo Messina, il co-produttore artistico insieme a me del lavoro, il mio pard musicale. Li abbiamo massaggiati per bene per ridargli tonicità e forma. Certo, non mi aspettavo che qualche giorno dopo mi proponesse quest’arrangiamento in 7 della prima parte, ne avevo un’idea diversa. Mi ha spiazzato. Per circa … 40 secondi! Poi ho capito che aveva colto nel segno e aveva ridato “pellicola” al pezzo. Da li abbiamo proceduto alla “visione" della parte centrale che in realtà avrebbe dovuto avere lo stesso passo dell’inizio. Con la sua chitarra acustica nel suo studio, in cui abbiamo lavorato alla pre-produzione di tutto l’album, mi è venuto in mente di cambiare totalmente atmosfera e accordi e di portare il pezzo a un’atmosfera più “Floydiana”. Enzo ha raccolto immediatamente e con la sua faccia illuminata si è buttato a capofitto nell’arrangiamento del mood, è venuta fuori “Sbarra”, la sbarra che c’è tra i due titoli. “Gatto rotto” era già previsto che fosse il secondo pezzo unito al primo, non ci aspettavamo diventasse il terzo del primo, infatti, la canzone ha tre atmosfere completamente diverse. E’ una marcia semi-trionfale che porta al riscatto dopo l’analisi amara. La strada è nera ma i gatti sanno come vederci, ne usciranno vivi dormendo sereni in mattinata. Menzione speciale per Matteo Agosti, il sound engineer (o ingegnere del suono che è più nostro) che ha lottato come un leone su questo flusso prog, dandogli un’unità sonora davvero eccellente. Milano è madre, ma non mi da pace e non mi lava.
Il disco prosegue con "Una vecchia storia d'amore (di noi)". Si ritorna a sonorità più familiari e il brano sembra essere quasi il sequel di "L'amore ci sorprende" ma qui il verbo è al passato, "L'amore ci ha sorpresi in pieno con le sue illusioni", è quello stesso amore ma ormai finito? Splendido poi l'Hammond che la introduce e la conduce per mano ...
L’amore ci sorprende (cd “La spina”) è una canzone di attesa, la condizione in cui ci si trova tra una storia e un’altra, quando dopo esserti leccato le ferite ti senti pronto a infliggertene delle altre pur di vivere la fase dell’incanto."Una vecchia storia d’amore" può essere quello che era successo prima o quello che potrebbe succedere dopo. Dove va chi se ne va? E cosa lascia? Il pezzo non lo dice. Il prezzo è l’onestà di capire che mollare a volte è meglio che trattenere. Le cose rotte hanno un fascino solo se non si hanno semi in tasca da piantare nel futuro. E’ un blues. Abbiamo pensato a "Mad dog & Englishmen", è un omaggio al sound del primo Joe Cocker, al quale va tutta la mia riconoscenza e quella di Enzo che, su questi mood, ci sguazza d’Hammond e di piano come se fossero prolungamenti del sistema nervoso.
Si può dire che in questo disco prevalga l'ambientazione notturna? Quella in cui esce anche il lato più oscuro e incontrollabile del comportamento umano? Sto pensando a due canzoni come "Il lupo" e "Hooligan", mi parli di loro, della loro genesi?
Non so, sicuramente è il disco più dark che abbia fatto. Ci sono gli aspetti più intimi della mia vita e scavando ho scoperto di avere un’anima controversa e a tratti scura, nonostante mi senta una persona solare e positiva. Per quanto riguarda “Il lupo” ho scritto questo blues dopo aver letto dell’uccisione di alcune pecore fatta dai lupi in Garfagnana l’anno scorso. Si è alzato un coro di allevatori che chiedevano a gran voce di uccidere tutto il branco famelico e mi sono detto che, se un lupo non può più attaccare qualche pecora per fame, pena lo sterminio, forse dovremmo chiederci cosa stiamo distruggendo noi per “sete” di potere e quale punizione meriteremmo. Ho dato parola al lupo che racconta il suo punto di vista scimmiottando i peggiori lati umani, un lupo che vuole essere come un uomo e somma le negatività delle due nature, antropomorfico come pezzo. “Hooligan” è Il pezzo più violento del disco. Una di quelle notti che sembrano tre insieme (e ce ne sono state) in cui non saprai mai cosa è successo, nessuno avrà il coraggio di dirtelo e ti svegli con un maiale nella testa … parlante. Pare che una parrucchiera abbia finito tutti i tuoi soldi, la Bestia si sia rivelata, qualcuno voleva uccidere il tuo nome e tutto è un fischio insopportabile nelle orecchie. L’unica cosa che ti ricordi è un sudamericano sudato che ti raccoglieva e ti metteva su un taxi guidato da un tizio che somigliava a Predator.
Se "Holigan" è la canzone più dura di questo album, credo che "Piove" sia la più intimista e struggente, sostenuta splendidamente dal flicorno di Daniele Moretto. Sembra nascere da un vecchio disco che gira su un grammofono e poi, piano piano, si dispieghi lenta e sinuosa, com'è nata?
“Piove” è il pezzo forse più fragile del disco, una canzone cui sono particolarmente affezionato perché mi riporta a una crisi molto profonda vissuta qualche anno fa, in cui la solitudine mi stava per schiacciare e che ora, finalmente, riesco a pubblicare. Ho utilizzato degli schemi mentali per parlarne, immagini e suoni. La pioggia che apre era necessaria perché mi rimanda a ore buie e solitarie per strada, con lo sguardo perso in un vuoto che non mi dava sollievo, con un ombrello, gli ombrelli sono uno dei modi migliori per avvicinare il suono della pioggia. Poi c'è un uomo che scappa da se stesso ma, arrivato da qualche parte lontano da casa, ha bisogno di telefonare da una cabina per parlare con nessuno, in quella casa che ha lasciato, a una segreteria telefonica a cassetta, sapendo che la sua voce risuonerà in una stanza in cui è stato felice. Bellissimo il piano di Enzo, le spazzole di Diego Corradin, il contrabbasso di Piero Orsini e, naturalmente, la “voce” di Daniele Moretto, che fa da contraltare alla mia. Apre con un quartetto da camera … vuota.
Forse la solitudine e la disperazione di “Piove” sono le stesse del protagonista di "Quello che canta onliù", lo splendido omaggio che hai voluto fare a un milanese doc come Enzo Jannacci. Come la sua musica è entrata a far parte della tua vita? Credi che in qualche maniera abbia potuto influenzare il tuo modo di scrivere canzoni?
Quando ero ragazzino, mio padre mi portava la domenica a fare delle gite fuori Milano. Quelle domeniche che partono presto, passano pigre e sonnolenti, statiche; tra campagna stinta e osterie, pesca sportiva e zucchero filato. In macchina una musicassetta. Rossa. Fissa: “Ci vuole orecchio” di Enzo Jannacci. Il ritorno era il momento in cui l’assaporavo di più. Cotto e semi addormentato sul sedile dietro, vivevo come un film tutte quelle parole, meravigliose, vere e surreali nello stesso tempo. Non capivo, ero giovane … ma capivo. “Quello che canta onliù” era tutta la malinconia che percepivo esistesse, ma non potevo ancora tastare realmente. La solitudine di un commesso viaggiatore? Il tarlo roditore del senso di colpa? L’amore che crolla e tu che ti affanni a tamponare le falle con la sabbia? Amo non averla ancora capita. Jannacci è uno stregone. Mi ha insegnato l’arte della “visione” in senso psichedelico. I suoi testi sono cangianti, dipenda da come li guardi, come li ascolti, chi sei, chi sei stato. Purtroppo l’ho incontrato una volta sola al teatro Dal Verme per una beneficenza, stavo provando il pezzo che avrei cantato in serata “La ballata del Paolone”, che potrebbe essere una deriva di “El purtava i scarp del tennis”, se non fosse una storia vera; lui era seduto in quarta o quinta fila con un suo collaboratore, il teatro vuoto. Finita la mia prova, vedo che si alza, fa per andarsene, torna indietro e dice al suo collaboratore: ” Ma chi è quello li?”, indicando me e, senza aspettare risposta, se ne va. Fantastico.
Una canzone quasi magica, con quella sua delicatissima intro del pianoforte è "Artisti di strada", dove "ogni ragazza anche se non sarà bella avrà un fiore fatto apposta per lei". Quanto ti senti artista di strada con le tue canzoni?
Gli artisti di strada, insieme ai pittori, sono i miei eroi. Sin da piccolo sono attratto da qualunque forma d’arte per la strada: madonnari, mimi, giocolieri, cantastorie, musicisti. Mi hanno sempre dato un senso di protezione, come la se la strada ti garantisse la carezza materna perduta. Forse è un punto d’arrivo a differenza di quello che si pensa. C’è un carillon che aleggia su tutto il pezzo, è la “pura parte da non fare mai da parte”, come cantavo in una canzone di un po’ di tempo fa (“Paladino” – cd “La Spina”). L'arrangiamento di Enzo, qui, diventa davvero la cifra del racconto, volevo una cosa alla Prokof'ev tipo “Pierino e il lupo”, con tutti gli strumenti a descrivere la storia da protagonisti narranti e così è stato, grazie alla sua magnifica sensibilità.
Se sei d'accordo, vorrei abbandonare il disco, lasciando ai lettori il gusto di scoprire il resto, Chiuderei affrontando la dimensione live, quella che credo tu ami maggiormente. So che ti stai attualmente dividendo tra teatro e concerti, racconti cosa stai realizzando e cosa hai in mente per il futuro? Ci sarà anche un seguito di "Scuola milanese”?
Si, come sempre sono in tour continuo, mi divido tra quello che c’è da fare, suonando ovunque: teatri, club, case. Dove c’è un pubblico e dove mi pagano, io vado. Questi sono tempi in cui bisogna risaltare sui treni con la chitarra e andare in giro a raccontare storie. L’aspetto più interessante di questo crollo del mercato discografico è che ci ha costretto a rimetterci tutti (chi lo sa fare) sulla strada. Ho appena finito il tour teatrale con Gino e Michele per i loro quarant’anni di spettacolo per i quali ho composto le musiche e sono alla ricerca di date per me. Ho lanciato da qualche tempo il Facebooking tour (cioè se mi vuoi nel tuo locale, scrivimi e ci mettiamo d’accordo), che sta funzionando molto bene. Le agenzie non si rendono conto che devono fare un passo indietro e lavorare anche con artisti come me, che non fanno (per ora) il grande pubblico, ma che ovunque vanno buttano le basi per un ritorno. Così facendo mi sto creando un ottimo giro in tutta Italia. Per il futuro ho un po’ d’idee, starò a New Orleans per tre mesi a scrivere il mio prossimo disco tra febbraio e aprile del prossimo anno, voglio andare alla radice del sincretico blues di quelle parti, incontrare e suonare con musicisti del luogo e registrare lì, per catturare quel suono. Il disco credo che s’intitolerà “BLUES IN MI”, dove MI sta per la tonalità del blues più utilizzata, la sigla della targa di Milano, il suono del pronome ME in inglese, ma anche in dialetto milanese. La Scuola Milanese si sta rianimando, a breve metteremo a disposizione, tramite un canale Youtube, le 60 ore di girato che abbiamo realizzato durante le due stagioni alla Salumeria della Musica, montate per bene; poi da ottobre molto probabilmente ripartiremo con un progetto radiofonico.