Stefano Vergani
Chagrin d’amour
Chagrin d’amour: dispiaceri d’amore che piacciono.
Non si sa per quali strane alchimie, ma sempre più spesso mi capitano tra le mani piccoli gioielli rimasti nascosti chissà dove, prima di approdare nelle mie mani.
E’ stato il caso del disco omonimo di Luca De Nuzzo appena recensito, ma è anche il caso di questo “Chagrin d’amour” (dispiaceri d’amore) di Stefano Vergani, perciò prendo in mano la bottiglia, pardon il cd e vedo dalla custodia che si tratta di un disco del 2007.
E’ vero, proseguendo questo parallelo enologico, che per i vini rossi ben strutturati, l’invecchiamento in bottiglia apporta benefici, ne smorza le asprezze e ne ammorbidisce i tannini, aumentandone il senso di rotondità e pienezza, ma sarà così anche per i dischi?
Io non so, se gustando questo disco di Vergani due anni fa, avrei ricevuto sensazioni diverse, so solo che ascoltato oggi suona un gran bene e si dimostra un disco solido e ben strutturato.
Partiamo dunque dalle note di testa, è consuetudine trovare nella maggior parte dei dischi che ascolto il brano più accattivante e trascinante dell’intero disco, qui il discorso è parzialmente ribaltato, nel senso che il brano in questione “Amici miei” è sì di quelli che affascinano, ma non per ritmo o fruibilità del testo, bensì per l’atmosfera rarefatta. Oltre alla voce di Stefano vi è presente il solo pianoforte a dipanare una lenta melodia, sofferta e malinconica, dilatata e dilaniata che trasmette un senso di attesa, di precarietà, di infinita incertezza fino al raggiungimento dell’agognata meta “Quanto volte ho lamentato una fitta alla caviglia / Che con l’arrivo non so come / avrei scordato preda della meraviglia. / C’erano chitarre che suonavano per noi / C’erano cantanti che cantavano per noi / E c’ero io e c’eravate voi, amici miei”.
Sa invece di balera e di orchestrina di una volta il brano “Bellosguardo”, come un vecchio swing uscito da una radio a valvole, storia di un incontro tra due, storia di un amore ormai finito da un pezzo e che in fondo non si sa bene neppure perché sia cominciato “Non ho più scuse da portare, non ho Santi da pregare, / nessuno ormai vedrai mi fermerà. / L’uomo del chiosco mi fa un cenno, aspettarti ormai è un ricordo / Dio solo sa perché l’ho fatto mai. Mi metto nudo e senza sdegno. / L’acqua era diventata un sogno, la verità è che non so dir perché / T’abbia amata così tanto Bello sguardo”.
In “Non cerco la città”, una bella beguine che sa di dolente sudamerica, fanno bello sfoggio di sé chitarra elettrica e mandolino ad intrecciarsi con la tromba, è ancora un amore finito ad essere protagonista della canzone come si evince subito dai primi versi “Non cerco la città, non cerco compagnia, non ho voglia di tornare, / poi tu non sei più là, poi tu non sei più mia, io che ci torno a fare”.
Note di liquide di pianoforte introducono “Il capobanda” fino al cambio di passo, il ritmo del piano si fa cadenzato ed entra in scena il violoncello a addolcirne la melodia in un continuo alternarsi tra impeto e quiete, in un gioco ironico di contraccolpi, un po’ come il testo che si chiude così “Il Capobanda sta sulla branda e si dondola e ciondola / La signorina sta sul Capobanda e si dondola e ciondola e ciondolar… / Ciondolar sulla branda, sai che vita che fai quando sei Capobanda”.
Sognante e trasognata è “Pesci e poltrone”, un sogno che non vuole finire, cui aggrapparsi allontanando il nuovo giorno, l’atmosfera è magica ed assorta grazie agli arpeggi di dolci chitarre “C’ero io e c’era sotto chi faceva rumore. / Non potevo ne restare nel letto ne far finta di uscire. / Non sapevo se aggrapparmi al cuscino e continuare a crederci. / Oppure arrendermi all’alba pallida e critica delle tredici”.
“Gli affranti” più che una semplice canzone è come fosse un film, un cortometraggio sanguigno, fatto di passioni e di amore disperato di quelli che conducono alla follia, è basata su un sottile gioco di parole tra il cognome Affranti della famiglia del protagonista della truce vicenda e l’aggettivo affranto fino al raggiungimento del tragicomico finale “Pepito fece cenno di vittoria ma lui nemmeno fece finta di sorridere / Non gli importava niente degli Affranti, della gloria / Gli importava più l’amore che di vivere: / “Nooooo Noooo. Antonina lascio a te il tuo cuore infranto. / morirò romantico lavabicchieri, ma non sarò un Affranto”.
Uno splendido organo ci conduce a “Mannaggiaaaquella”, che inizialmente mi ricorda un po’ “Boogie” di Paolo Conte soprattutto per la voce ed il modo di cantare di Stefano e che ha come protagonista una puttana che usava dire “Regina che sono io non bado che alla felicità altrui” e che lasciando la scena, sprofondando nel mare, “sparì lentamente portandosi via / gli occhi di tanti ragazzi e dei piccoli pezzi di giovani cuori / così nel fondo del mare, potesse cullare i loro dolori.”.
Note di un malinconico pianoforte e la voce sofferta di Stefano ci portano in “Raramente mi fai incazzare” una bella e dolce canzone d’amore in cui la donna amata è dipinta con versi originali “Tu sei bella come una bella pista per le biglie. / Con tutte le sue curve, i suoi tranelli, le sue regole flessibili. / Bella coi ciclisti in bicicletta, quanti muscoli e che fretta di tornare” e che si chiude con una bella coda strumentale di pianoforte e violoncello.
“L’uomo in cerca di I.” è forse il pezzo più bello del disco, perché ha un testo di una poeticità sopraffina senza alcun cedimento e musicalmente presenta sonorità da ballade d’oltreoceano, che si discostano un po’ dal resto del disco. Il testo, che per motivi di spazio non posso certo riportare per intero, anche se meriterebbe, narra di un'esistenza senza più certezze (autobiografico?) “E nella testa ha sempre la stessa canzone, / quella che un tempo, che un tempo l’ha fatto cantare / Ma non ricorda la parte che gli ricorda la parte che gli insegnò a amare / La parte del testo che un tempo l’ha fatto bruciare”.
Tocca alla tromba aprire e disegnare “Tango”, pezzo inizialmente soffuso, malinconico e notturno, che poi si illumina di mexico e di mille domande, quelle che ci si porge la sera, quando il giorno ha termine e viene il momento dei bilanci “Possibile è tutto, possibile è quasi, ma è meglio che rischi quel poco che sai. / Tu mi vedi la sera che canto e che ballo e che pensi che io sia solo questo… / E il resto è musica, e nuvole, solo nuvole io sono per te, nuvole”.
Con “S’adagerà”, è giunto il momento delle note di coda per questo vino, scusate disco, che chiude come si era aperto, con un brano solo voce (bella, intensa e calda, come in tutto il disco) e pianoforte, un brano perfetto per chiudere questo intenso lavoro, con il narrare dello spegnersi di una qualunque giornata in una qualunque città “S’adageranno i fiori sopra il prato. / La rosa che ho donato. / la penna con cui scrivo / La voce della donna dell’uomo che aldilà del muro della stanza / ha perso la pazienza e tutta la speranza anche lei si adagerà / E adagio adagio s’adagia la città / E adagio adagio s’adagia la città”.
Ma c’è ancora spazio anche per un’imprevista coda, quasi che questo “vino” volesse lasciare in bocca un retrogusto virante verso l’ironia e la goliardia, con una canzone in stile osteria, voce e chitarra, che parla di un prete innamorato della promessa sposa del protagonista. Che dire di più, nella vicina Brianza c’è un giovane artista che sa scrivere e cantare con gusto, che è già al suo secondo lavoro e mi accorgo solo ora, io ho cercato di rimediare, non siate da meno.
Stefano Vergani
Chagrin d’amour
Genre: Cantautorale
Tracks:
- 1) Amici miei
- 2) Bello sguardo
- 3) Non cerco la città
- 4) Io era bella (e di biondo)
- 5) “Il capobanda”
- 6) Pesci e Poltrone
- 7) Gli Affranti
- 8) Mannaggiaaaquella
- 9) Raramente mi fai incazzare
- 10) L’uomo in cerca d’I.
- 11) Tango
- 12) S’adagerà
Renseignements pris à partir du disque
Orchestrina Pontiroli
Luca Butturini: chitarre, cori e legnetti
Diego”Tony Roma” Potron: contrabbasso
Andrea “Poncho” Pontiroli: batteria
Stefano “Iasko” Iascone: trombe
Fabio “Ullo” Cardullo: saxofono
Felice Cosmo: pianoforte
Hanno inoltre suonato
Irina Solinas: violoncello
Max De Bernardi: chitarra, oculele e mandolino
Mauro Ferrarese: chitarra dobro
Testi di Stefano Vergani
Musiche di Stefano Vergani e Orchestrina Pontiroli
Registrato e missato presso Studi Artambo – Milano da Alessandro Chiodini
Masterizzato da Marco Bonanomi presso lo Studio Marbona
Prodotto da Max Cantù per Bagana Records
Copertina “Chagrin d’amour” di Sozzi