Bona Head
Colours Doors Planet
A volte per decifrare un disco basta guardarne la copertina:
tre porte come una sorta di passaggio spazio temporale tra momenti e dimensioni diverse.
Un trapasso tra l’immortalità, la mortalità e nuovamente l’immortalità. Un po’ come il processo creativo, la nascita di una vita. Tutto quello che ha la pretesa di chiamarsi arte è un qualcosa di latente che viene catturato in un’opera finita (in quanto imperfetta, limitata che ha una dimensione e un limite spaziale o di pensiero) per poi essere restituita all’infinito nel momento in cui questa si stacca dal suo esecutore. Tutto questo mi passa per il cervello ascoltando ripetutamente le tracce di questo album. Il cremonese Roberto Bonazzoli "Bona Head" si presenta così con il suo primo album solista intitolato "Colours Doors Planet" con l’ambizione di creare un mini concept album introspettivo. Tre porte, tre periodi identificati da colori diversi, un viaggio che non è “sulla strada”, ma all’interno dell’animo umano.
La sensazione è quella di essere davanti a una vocazione di più ampio respiro tesa a unificare performance art, arte visuale e sperimentazione musicale. Niente di complicato, per carità, ma un tentativo cha va al di là di una mera operazione di revival targata synth-pop. Insomma un’elettronica con velleità progressive e richiami di dream-tronica che manifestano una giusta dose derivativa, ma pure una sana voglia di “incroci casuali”.
I nomi sono sempre quelli:
Human League, Visage, gli immancabili e istituzionali Depeche Mode; ma più sono gli ascolti digeriti e più ci si accorge di quanto sia stratificata la trama. Anzi, a dire il vero, mi è capitato più volte di cogliere diversi passaggi all’interno dello stesso pezzo e di ritrovarmi di fronte a decelerazioni o cambi di ritmo dai connotati fortemente matematici, ma dalle tinte idealmente delicate. Per chi conosce i Ladytron si potranno tracciare ulteriori parallelismi con una ricerca continua di sperimentazioni che hanno radici negli anni ’80, epoca regina del synth. Un richiamo ai ritmi ipnotici e meccanici di scuola mitteleuropea, filtrati da aperture space-vintage e indie d’islandese memoria. Il tema che ci viene suggerito è quello di una metropoli scandita da suoni lineari e superfici geometricamente fredde, piuttosto che una landa desolata e vuota. In realtà, dietro all’apparente organizzazione, disgregazione e confusione.
Quello che colpisce di questa produzione è la padronanza nel gestire e intersecare le varie declinazioni di genere. L’intro strumentale potrebbe rappresentare, efficacemente, la colonna sonora del lancio del primo uomo nello spazio. Il manifesto che immortala Jurij Gagarin, mentre osserva con il fiato sospeso la Terra che si apre sotto di lui. Nei tre brani successivi si conclude la prima fase fatta d’interrogativi, smarrimento e dubbi, confermato dal titolo emblematico Fog della seconda traccia. Segni particolari: testo ermetico, evanescente. Qui a differenza dei due successivi ascolti, si lavora sempre sullo spettro infinito dei generi elettronici, ma con una tonalità tenue tendente a qualcosa di più cosmopolita con contaminazioni di fine millennio. Si passa quindi alla fase oscura, della crisi, della riflessione, dove addirittura nel pezzo Before to the Mirrors siamo di fronte ad un ipotetico passaggio di testimone tra un brano dei Tool remixato dai Depeche mode, passando per i Clock DVA. Talking to my self dal testo allusivo è forse il brano più “integralista”, dove rimbomba un suono oscuro, tastiere retrò, con un beat robotico e un’anima wave. Anche la successiva September Shock ci riporta alle tematiche della “porta 2” chiudendo il periodo “violet, blue, black”. Con il M.Pity si entra nella fase della “risurrezione”. Sembra di scorgere un synth leggero come il primo pop elettronico dei Belle & Sebastian per poi tornare su ritmiche fine millennio dei nostrani Subsonica. L’aria si fa più distesa, sostanzialmente positiva anche se ancora palpitante.
Il brano Kepler conclude il disco e al contempo racchiude, in un solo pezzo, l’evoluzione di tutto il lavoro. Tanto per capirci siamo di fronte a un particolare che riassume l’insieme con il tipico andamento a “strattoni”. Accelerazione – rallentamento, con un ritmo incalzante nuovo millennio: minimal, secco, quasi techno-tribal che, con il passare dei minuti, scivola su sonorità fioche e sopite di matrice scandinava.
Un suggerimento spassionato: il lavoro, che si presenta come un concept, in realtà si può anche leggere come un “trailer” musicale. Ci mostra, infatti, una sorta di matrice tecno-culturale da cui potrebbero partire (potenzialmente) le linee di sviluppo futuro di questo progetto allo stato embrionale. Insomma l’effetto “vetrina” nell’opera prima è finanche giustificabile. Aggiungo però che, nonostante i veri talenti non abbiano bisogno di sbirciare gli altri musicisti, vale una volta di più il motto …“impara l’arte e mettila da parte”. Dare un’occhiatina alla carriera di John Foxx potrebbe essere di grande ispirazione, visto che per ogni canzone e stile di questo lavoro, lui ne ha fatto un album!
Bona Head
Colours Doors Planet
Género: Pop , Elettronica , Elettronica
Canciones:
- 1) Overture (The Traveller)
- 2) Fog
- 3) Kites (Lost In Thought)
- 4) Momentary Visions
- 5) Before To The Mirrors
- 6) Talking To Myself
- 7) September Shock
- 8) M.Pity
- 9) Miss Serendipity
- 10) Kepler (The Reflection)
Información tomada del disco
coproduzione con Amnesys
Paese: Italia
Format Full length CD
Label: unsigned
Distribuzione: unsigned
Promozione: unsigned
Roberto Bonazzoli “Bona Head” (Voci, tastiere, piano, chitarre acustiche...)
Testi: Roberto Bonazzoli “Bona Head”