Abbiamo ascoltato l'album Proserpine di Augustine, pubblicato da "I Dischi del Minollo" nel 2021 e vogliamo approfondire questo interessante lavoro.
Perché hai scelto il nome d'arte "Augustine"?
Anni fa lessi il saggio del filosofo dell’arte Georges Didi-Huberman intitolato L’invenzione dell’isteria: un libro che mi aprì molte porte. L’isteria mi interessava molto, in quanto “malattia del femminile”, essendo i miei lavori artistici sempre inscindibilmente legati al mio essere donna, con le sue complessità e problematicità. Nel saggio si parla soprattutto del legame tra questa paradossale condizione dell’essere tipicamente femminile e il suo rapporto con l’immagine (in quel caso specifico la fotografia dell’Ottocento): questo passaggio è cruciale e lo è anche nel mio lavoro, dal momento che mi servo sempre, di volta in volta, di una qualche immedesimazione con un personaggio femminile tratto dalla letteratura o dal mito, per poter portare l’autobiografia su un piano più assoluto, per poter essere soggetto e oggetto al tempo stesso. Augustine era appunto l’isterica protagonista del libro: scegliere il suo nome significava non soltanto assumere la condizione paradossale dell’isteria come paradigma del fare artistico, soprattutto in quanto legato all’essere donna, ma anche dichiarare apertamente un gioco di identificazioni.
Sei una polistrumentista, suoni parecchi strumenti. Qual è il primo a cui ti sei avvicinata e come hai evoluto la tua conoscenza tecnica musicale con altri strumenti?
Mi arrangio a suonare di tutto a seconda delle esigenze, è vero, nei miei album ho suonato quasi ogni strumento presente; ma ci tengo a dire che non mi ritengo una vera musicista, sono più che altro un’autodidatta, sempre pronta ad acquisire nuove capacità, con il solo scopo di assecondare le mie esigenze espressive. Il tutto avviene molto intuitivamente (fortunatamente posso contare su un ottimo orecchio). L’unico strumento per il quale prendevo lezioni da ragazza è la chitarra, ho iniziato a 14 anni. Se devo però dirvi quale sia il mio strumento, è senza dubbio la voce. Anche in questo caso non posso vantare dei veri e propri studi; tuttavia alla voce dedico tutta la mia esistenza. Considero la mia voce la mia anima; non è solo un mezzo espressivo, è una mia impronta sonora. Ogni mia composizione nasce dalla voce, e in questo campo sento di non avere alcun limite, o meglio: indago costantemente il limite, per superarlo e trovarne un altro. La ricerca della propria voce è la ricerca di sé, qualcosa senza fine, in continuo mutamento.
Nel tuo progetto "Proserpine" mi pare che hai concretizzato l'idea di creare un prodotto che sembra provenire da un altro tempo, ad iniziare dalla copertina. Parlaci un po' di come è nato questo album e di come è cambiato dalla sua idea iniziale alla versione pubblicata.
Credo che ogni mio prodotto artistico sembri provenire da un altrove spaziale e temporale (che non significa necessariamente dal passato, ma semplicemente una temporalità “altra”); è ciò che voglio, ma anche ciò che necessariamente ottengo. L’idea dell’album è nata quando ho iniziato a comporre quei brani e mi sono resa conto che erano tutti legati da un filo conduttore estremamente coerente, sia musicalmente che a livello di contenuti. Aleggiava ovunque un senso di reclusione, di intimità e condanna contemporaneamente. La figura di Proserpina si è affacciata quasi subito, soprattutto nella veste pittorica che conosco, il quadro di Dante Gabriel Rossetti, dove la dea è colta nell’atto di gettare uno sguardo verso una fenditura fugacemente apertasi dalle porte del palazzo dell’Ade. Proserpine è esattamente quello sguardo dall’interno-inferno verso l’esterno. Dapprima ho lavorato come sempre in completa autonomia, registrando i demo a casa; dopodiché sono entrata in studio, a “La Cura Dischi” di Perugia, dove ho affidato il mio materiale alla produzione di Fabio Ripanucci. È lì che sono avvenuti i cambiamenti rispetto ad un’idea iniziale: la mia pre-produzione era già molto dettagliata a livello di arrangiamenti, ma occorreva un’evoluzione nelle sonorità, possibile solamente coinvolgendo nel lavoro altre persone ed affidandosi ad un ambiente professionale. Se ripenso a come ho concepito inizialmente Proserpine, le differenze sono davvero poche: principalmente sonorità più asciutte e raffinate, qualcosa che non avrei comunque potuto immaginare prima di imbattermici. Ma questo, dopotutto, è ciò che accade in ogni lavoro.
Come è stato creare questo album in un periodo di pandemia mondiale?
C’è stata qualche scocciatura, naturalmente. Come dover interrompere il lavoro in studio durante il primo lockdown: eravamo già a buon punto, quando si è diffusa la prima ondata del virus. Questo ha comportato enormi rallentamenti (difficili da tollerare, per una persona impaziente come me). Non parliamo poi del fatto di dover rinunciare (almeno per ora) ai concerti; ma qui siamo già al “dopo”…
Non ho avuto modo di ascoltare il tuo album di esordio "Grief and Desire" del 2018. Ce ne puoi parlare, alla luce di questa tua nuova uscita?
Mi piace pensare a Grief and Desire come ad una sorta di diario musicale. È un lavoro complesso ed eterogeneo, dal carattere fortemente autobiografico. È stato interamente registrato in home recording, in totale autonomia. Questo può forse apparire come un “difetto” o forse indice di una certa acerbità: le sonorità, molto legate alla musica Wave e Dream Pop, hanno certamente risentito di questa solitudine. Ma d’altro canto, e con il senno di poi, non riesco ad immaginare questo album diversamente da come è: era giusto che fosse così rarefatto, così solitario.
La malinconia mi pare che faccia parte della tua musica, che ha certamente connotati dark. La scelta di questo stile è originata dal tuo carattere?
Ho un’indole malinconica, è vero, e la mia musica di conseguenza. Certa musica di matrice dark chiaramente mi offre sonorità in cui rispecchiarmi e le stesse sonorità penetrano per osmosi nella mia musica. Nessuno, credo, può prescindere, in quello che fa, da ciò che è. Di sicuro io non ne sono capace.
Perché hai sentito la necessità di collegarti alla mitologia con Proserpina, la regina degli Inferi? Cosa lega i vari brani?
Come vi raccontavo prima, in realtà il mito di Proserpina non è stato anteposto al mio lavoro in maniera programmatica; si è semplicemente affacciato da sé man mano che i brani prendevano forma nella loro totalità e nell’omogeneità dei loro contenuti. Il mito fa parte di un nostro inconscio collettivo, credo sia esso ad imporsi e non tanto noi a sceglierlo come specchio.
La fantasia, in un posto e in un tempo che rimane immortale è meglio dell'attualità?
L’attualità è imprescindibile, che lo si voglia o no, semplicemente perché è il nostro presente; non credo però che l’attualità debba essere anche il contenuto di un atto estetico, almeno non in quanto mera attualità: in quel caso si produce cronaca, non arte. Ogni prodotto artistico, sebbene generato dal suo tempo, ha la capacità di squarciare il tempo, di disegnare una temporalità altra, un altrove. In questo senso si può anche dire che, nel tempo, guadagni la sua “immortalità”. La fantasia è una categoria che mi appartiene ben poco; preferisco parlare, semmai, di immaginazione. Come la parola stessa dice, è impossibile immaginare qualcosa se non ci si affida ad essa. Ma si tratta di un mezzo, di nuovo, non di un contenuto; è uno dei tanti mezzi necessari (non l’unico) all’espressione artistica e non semplicemente un bel sogno in cui rifugiarsi. Tra l’altro, trovo che la mia musica tratti temi di estrema concretezza, per quanto fortemente personali. Nel farlo, però, ha bisogno di disegnare una realtà che sia – non alternativa, ma – parallela all’attualità.
Davvero etereo ed estatico il tuo video di Anemones, una apertura nel cielo nuvoloso ed oscuro degli altri brani. Ci racconti qualcosa della sua realizzazione?
Effettivamente Anemones all’interno dell’album rappresenta un momento di schiarita, un fugace raggio di sole, per quanto crepuscolare. Secondo il mito, gli anemoni nacquero dal sangue del morente Adone, amato da Proserpina. Da qui il significato simbolico attribuito ai fiori: “abbandono”. Di abbandono parla appunto il brano ed il video, di conseguenza, trasmette questa sensazione di grande solitudine. Insieme al regista, Francesco Biccheri, volevamo che io diventassi una creatura fuori-luogo, che vive la sua quotidianità domestica in un contesto straniante, pur nella sua bellezza naturalistica, quasi in prigioniera di una dimensione onirica, dell’attesa di qualcosa che non accade mai. L’attesa è dolce e velata di malinconia. Il temine “anemone”, derivante dal greco antico, significa “fiore del vento”, in riferimento alla sua natura effimera e l’effimero è senz’altro un altro elemento che abbiamo deciso di trasmettere nel video. I gesti sono naturali nella loro quotidianità, ma il fatto di essere compiuti in un quel contesto paesaggistico li rende vacui, vani. La giornata si apre e si chiude, dalla mattina alla sera, forse uguale alla precedente e alla successiva, ed io confesso i miei pensieri, attraverso il canto, il mio stesso amore, a null’altro che il vento.
Quali sono gli artisti che prediligi e quelli che ti hanno ispirato di più?
Il mio amore musicale più grande, come ho sempre confessato, va ai Cocteau Twins, soprattutto per tutto ciò che hanno realizzato nel periodo che precede gli anni ’90. Elizabeth Fraser vocalmente è il mio più grande riferimento. Non posso non citare i Dead Can Dance: l’influenza della loro musica è forse anche più evidente in un album oscuro e remoto, a tratti lisergico, come Proserpine. A proposito, parlando di influenze, posso certamente citare la PJ Harvey di album come White Chalk e Let England Shake, ma anche Agnes Obel; e Julianna Barwick, soprattutto per quanto riguarda le armonie vocali, un tratto che considero distintivo del mio modo di comporre. A livello di sonorità, si potrebbe anche parlare di Death in June, un ascolto che abbiamo spesso fatto il mio produttore ed io durante la lavorazione dell’album: credo che qualcosa del suo tocco “industrial” sia filtrato, per mano di Fabio, nella mia musica.
Segui la musica italiana?
Se parliamo di musica contemporanea main stream o di matrice “indie”, no e non certo per partito preso o snobismo. Fatico effettivamente a trovare spunti interessanti. Nell’underground ci sono però realtà musicali italiane di tutto rispetto; molte di queste trovano il loro pubblico migliore all’estero. Se vogliamo riferirci a qualche artista italiano del passato, l’unico che veramente amo è Fabrizio De André, perché trovo che sia il solo ad aver saputo utilizzare la nostra complessissima e ricchissima lingua in maniera davvero elevata, anche dal punto di vista canoro, riuscendo a creare una sorta di folk veramente italiano, che racchiude in sé tradizioni musicali e dialettali senza mai abbassarle a livello di folklore, e allo stesso tempo senza chiudersi alle influenze della musica estera. Un genio impareggiabile.
Come mai la scelta di comporre i testi in inglese? E' un dato di fatto che l'italiano aiuta e molti artisti della nostra penisola sono arrivati al successo solo dopo avere abbandonato la lingua anglosassone (Afterhours, The Zen Circus, ecc.)
Scrivere in inglese non è una scelta, ma una necessità artistica (io faccio tutto per necessità, piuttosto che per scelta). Dunque è chiaro che non sia dettata da una qualsivoglia strategia di mercato, ma piuttosto da profonde ragioni estetiche ed interiori. Non mi pongo il successo come un obiettivo e non credo debba esserlo; gli obiettivi sono altri e riguardano più che altro la costante crescita artistica. Il successo può essere un effetto collaterale, ovviamente gradito, ma anteporlo al resto, condizionando scelte estetiche e contenutistiche, non mi è mai sembrata una buona strategia. Tanto per cominciare, scrivo in inglese perché ho sempre principalmente ascoltato musica con testi in inglese, dunque è stato qualcosa di estremamente naturale fin dalla prima adolescenza; è chiaro che non mi accontento mai del mio livello di conoscenza della lingua e investo moltissimo nel suo studio, per esempio leggendo molto poesia e letteratura inglese… Inoltre, scrivere in una lingua che non è la mia funziona per me come una sorta di filtro, mi permette più facilmente di staccare il linguaggio dalla mera comunicazione ed elevarlo ad un livello di poesia, dove il suono ritrova tutto il suo mistero e apre la parola a sensi più profondi e più imprevisti rispetto a quello comune. Se fossi una poetessa, riuscirei probabilmente a fare ciò anche nella mia lingua, ma io sono una cantautrice e non mi trovo a che fare con endecasillabi, ma con strutture ritmiche brevi, derivanti dal rock e dal pop (quindi nate in paesi anglofoni), che molto poco si adattano alle parole italiane, composte solitamente da più di tre sillabe. Trovo grotteschi molti tentativi, tipici della musica italiana, di adattare l’italiano a quelle strutture ritmiche, obbligando a scegliere quelle poche parole di due o tre sillabe che la nostra complessissima lingua offre, con il risultato frequente di un terribile impoverimento lessicale e contenutistico. Forse è un mio limite trovare queste incoerenze. Certo è che il nostro è davvero uno strano paese: inneggiamo all’epoca globale e ancora il mercato musicale nazionale non si apre al cantato in inglese, rimanendo in questo senso invariato dagli anni ’60, quando si facevano le cover in stile RAI dei grandi successi esteri in italiano, spesso traviando ed “edulcorando” il significato originario dei brani… Ho sempre pensato che saper comporre in inglese sia un qualcosa in più e non un qualcosa in meno; e trovo che sarebbe preferibile per qualsiasi musicista guadagnarsi un pubblico internazionale, piuttosto che esclusivamente nazionale. Non mi pare bello porre dei confini linguistici in questo senso, soprattutto quando si continua a ripetere che l’arte non ha confini… La mia musica è rivolta ad ascoltatori di ogni nazionalità, questo è certo.
Oltre alla musica, sei appassionata anche di altre forme d'arte?
La mia formazione artistica è stata principalmente visiva, avendo studiato all’Accademia di Belle Arti; dunque la pittura e l’arte visiva in generale hanno occupato una fetta importantissima della mia vita e continuano a farlo: la realizzazione dei videoclip, per esempio, mi dà la possibilità di esprimermi anche in questo senso. Inoltre amo la lettura, come accennavo prima, in ogni sua forma, dalla saggistica alla poesia.
Ti ringraziamo del tempo dedicato. Vuoi aggiungere qualcosa?
Ne approfitto per fare io dei ringraziamenti: intanto a voi, che come tante altre redazioni mi avete dedicato tempo e spazio, accogliendo Proserpine con cura ed entusiasmo. E poi voglio ringraziare tutte le persone a me carissime che hanno reso questo lavoro possibile, da coloro che hanno attivamente partecipato alla realizzazione dell’album, a coloro che hanno seguito il tutto dall’esterno, non smettendo di starmi accanto e sostenermi. Proserpine è senz’altro un album che esprime solitudine, ma è stato un lavoro tutt’altro che solitario e la post-pubblicazione lo è ancora meno. Di questo sono grata e felicissima.