DeaЯ: Intervista del 29/03/2023

Pubblicato il: 29/03/2023


Mon Turin è un album complesso. Questa intervista cercherà di farvi avvicinare all'autore per comprendere meglio il suo lavoro

Chi c'è dietro al progetto DeaR?

Ci sono le iniziali del mio nome e cognome, Davide Riccio: D.R. Quando da bambino mettevo i dischi sulla fonovaligia, li guardavo girare incantato e affascinato anche dall'odore di quella plastica elettronica surriscaldata. E sulle etichette dei dischi di quel periodo, dal 1966 ai primi anni '70, leggevo la sigla D.R. Questa poi seppi voler dire “Diritti Riservati”, ma a me piaceva associarli alle iniziali del mio nome. Fin da allora, infatti, mi sarebbe piaciuto da grande fare anch'io dei dischi con la mia musica e leggervi sopra davvero il mio nome. Se però leggi le lettere “D” ed “R” in inglese, come è giusto che sia, dal momento che fin da ragazzo ho scelto soprattutto la lingua inglese, perché lingua più duttile e adatta al “rock”, quella dei miei cantanti e gruppi più amati e nei quali mi immedesimavo, nonché lingua franca internazionale, beh, allora si pronuncia “DeaR”, come “caro”. Mi piace l'idea di poter essere caro a qualcuno, di essere una persona o un artista amato, che stia a cuore perché in qualche modo importante grazie alla propria arte. Poi, però, andrebbe scritto DeaЯ, con la R rovesciata, anzi speculata. Questa diviene così la trentatreesima e ultima lettera dell'alfabeto cirillico russo, la “ja”, che è anche la parola per indicare il pronome personale “io”. La “Ja” (“io”) o Я, in quanto ultima lettera dell'alfabeto, veniva usata in Russia per insegnare ai bambini la modestia e l'umiltà. Io amo la musica russa. I primi a farmi sognare furono compositori come Rachmaninov, Cui, Rimsky-Korsakov, Borodin, Kachaturian, Ippolitov-Ivanov, Gliere. Mussorgsky, Rubinstein... Per non dire degli scrittori... DeaЯ, ad ogni modo, non è un progetto, ma una persona che ancor prima di fare progetti semplicemente ha da sempre avuto un bisogno insano e disfunzionale di esprimersi attraverso l'arte, possibilmente senza subire alcuna interferenza da parte del mondo affaristico e preconfezionante, e nondimeno distruttivo, spesso anche becero, dello spettacolo.

La composizione di questo lavoro ha richiesto ben dodici anni tra abbandoni e riprese. Un tempo lunghissimo, ma una soddisfazione nell'essere riusciti a portarlo a termine.

Fin da fanciullo amai la musica classica dei primi decenni del '900: Ravel, Debussy, Shostakovich, Bartòk, Stravinsky, Hindemith, Satie, Poulenc ecc. Per la musica quello delle Avanguardie Storiche fu un periodo meraviglioso. Da ragazzo mi immedesimai totalmente nel compositore Adrian Leverkühn, il personaggio immaginario del romanzo di Thomas Mann, “Doctor Faustus”, una rivisitazione del mito medievale di Faust che in realtà celava un mefistofelico miscuglio di Wagner e Schönberg, ma anche di Adorno e Nietzsche. Io ebbi un modesto armonium da bambino, ma imparai a suonare davvero uno strumento grazie a una chitarra regalatami da mio cognato, una Eko Egmond semi-hollow coi tagli a effe del '63. A parte le prime terribili lezioni di solfeggio ricevute da mio padre, impaziente e poco incline alla didattica (lui era un fisarmonicista ossessionato dal virtuosismo della velocità), imparai a suonare la chitarra da autodidatta. Le mie prime tastiere le ebbi dai vent'anni in poi, ma mai un pianoforte vero e proprio, come invece avrei voluto da sempre nei miei desideri. Un Bosendorfer, magari, in questa preferenza io già soccombente di fronte al primo vero Glenn Gould e al suo Steinway... rievocando il romanzo di Thomas Bernhard.
Imparai a fare canzoni più o meno rock, perché di fare altro non sarei stato in grado. La sera, prima di addormentarmi, immaginavo però mie pagine classiche, per lo più sinfoniche o per piano e orchestra. Nella fase ipnagogica prendevano il sopravvento e diventavano meravigliose. O così mi sembravano in quell'attimo fuggente. Ovviamente l'indomani non ne ricordavo più nulla. Confidavo che nel futuro avrebbero prima o poi costruito dei registratori “mentali”, capaci di registrare cioè la musica immaginata mentalmente. Nonostante qualche esperimento, direi che ancora non ci siamo. Alvin Lucier nella sua composizione dal titolo "Music for solo performance" del 1965 adoperò gli elettrodi dell'elettroencefalogramma per usare le onde alfa del cervello nel corso di una meditazione, con le quali far vibrare delle percussioni. Credo che ad oggi, nonostante i molti progressi scientifici e tecnologici, questo sia ancora il massimo ottenuto da questo punto di vista. Per fare qualcosa di classico, infine, come immaginato e agognato fin da allora, non mi restava che dotarmi della giusta strumentazione, migliorarmi come musicista e suonarlo davvero. I dodici anni intercorsi sono dovuti al fatto che composi velocemente gran parte della suite al pianoforte nel 2011. Poi ho lasciato decantare fino al 2022, quando ho ripreso il lavoro e vi ho aggiunto tutti gli altri strumenti grazie ai quali ho potuto soccorrere un pianismo altrimenti limitato e imperfetto come solista. Ma, certamente, avevo bisogno anche di metterci più colore.

"Mon Turin" è una suite di brani dedicati a Torino. L'album non è completamente strumentale, ma ci sono alcuni brani cantati, se non ricordo male "Notturno", "Lied", "Silent lights bejewel the night", "Letters from Turin". Nessuno però è cantato in italiano, come mai?

Sì, ci sono anche brani cantati, composti in momenti diversi. Li ho aggiunti per rendere più articolato e completo il mio omaggio alla mia amata città. “Nocturnal” è un brano composto con Alessandro De Caro, mancato drammaticamente nel 2020 durante il lockdown. Era un caro amico e la cosa mi ha sconvolto. Aveva fatto questo brano al piano nel 2011 per un altro mio lavoro dal titolo “Turin by heart”, una raccolta di brani dedicati a Torino chiesti a diversi musicisti. Disco che poi non riuscii a pubblicare con la mia etichetta “Unamusica”, già agonizzante dopo poco tempo e poche uscite. Né trovai alcuni a interessarsene. Alla fine del 2021, riascoltandola, sentii il bisogno di scrivervi delle parole e cantarle. Da quel progetto, “Turin by heart”, proviene anche “Letters from Turin”, un brano strumentale ambient jazz di Pensiero Nomade (Salvo Lazzara e Davide Guidoni), anch'esso recuperato dopo avervi sentito nascosta una melodia, che estrassi letteralmente improvvisando dopo aver scritto un testo, una lettera ai miei genitori non più su questa Terra, entrando quasi in una sorta di meditazione carnatica. Ovviamente il testo fa anche riferimento alle “Lettere da Torino” di Nietzsche e al suo pensiero. “Silent lights bejewel the night” è un mio brano del 2007 in cui ho usato una cellula di una sonata di Franz Schubert reiterata al modo di una gnossienne o una gymnopédie di Satie. Il testo è una poesia bellissima di Cesare Pavese tradotta in inglese. Del resto Pavese amava la lingua inglese, oltre che il cinema di Hollywood e il jazz. Tradusse molti libri importanti dall'inglese, tra i quali “Moby Dick”, e ancora opere di Dos Passos, Defoe, Faulkner, Dickens, Joyce... Le “Locutions des Pierrots” sono invece un lied cantato in francese, su testo di Jules Laforgue. Gli ultimi due brani, in realtà, sono cantati invece in italiano: “Da Quarto a Torino” e “Quando il bambino era bambino”, quest'ultimo liberamente ispirato alla poesia di Peter Handke usata nel film di Wim Wenders, “Il cielo sopra Berlino”. Quindi, in “Mon Turin” ho cantato anche in italiano. Il testo ”Da Quarto a Torino” è il mio testo migliore che potessi dedicare alla vastità nascosta, da sempre, e spesso incompresa e bistrattata, di Torino, città tra le più belle del mondo. Nella versione digitale è uscita anche una bonus-track, passata inosservata, che è un brano disco dal titolo “No side effects”, ed è sulla VR, la Virtual Reality. L'ho aggiunto non perché attinente al progetto di “Mon Turin”, ma perché avevo questo buon vecchio brano del 2013 del tutto dimenticato. Volevo dargli una occasione. Per la stessa ragione, il 30 dicembre 2022, Music Force ha pubblicato un altro mio album, del 2007, anzi ghost-album, rimasto a lungo inedito benché avessi già pronte e stampate perfino le copertine. Ebbi un ripensamento. L'album lo rivisitai nel 2017. “Wrong or right of forty”, un album di 15 brani fatti in collaborazione con numerosi musicisti dell'underground elettronico e sperimentale italiano e statunitense, è ora disponibile sui servizi musicali digitali come Spotify. Mi farebbe piacere si sapesse, si ascoltasse...

Cosa rappresenta la copertina? Molti cassetti, alcuni aperti, altri rotti o mancanti e su uno un disegno...

La copertina è stata ideata dall'artista Leonardo Di Lella, che spesso ha curato le copertine dei miei cd e dei miei ultimi libri (tra cui l'ultimo di poesia “A qualsiasi titolo” e il saggio “Italian Bowie”, quest'ultimo pubblicato quest'anno da Arcana). A lui il mio lavoro ha rievocato una vecchia cassettiera portaminuteria, anche un po' scassata, da cui estrarre ricordi o materiale chiuso e dimenticato o dimenticabile appunto nei cassetti, dei cassetti direi piuttosto minimali. Ed è ciò che sto facendo in questi ultimi anni. Ho un archivio di diverse centinaia di canzoni e composizioni strumentali, a cominciare dal 1982, mai pubblicate finora. È tempo di tirarle fuori dai cassetti (un tempo avrei detto “cassette”, ma oggi le musicassette non si usano più – benché stiano tornando stranamente in auge - e ho tutto digitalizzato). Io però continuo a registrare su nastro, prima di procedere a digitalizzazione. Credo che questo contribuisca a conferire un certo calore analogico del suono, anche se imperfetto per altri aspetti.
Alcuni cassettini di quella cassettiera mancano, perché in effetti ho anche buttato via centinaia di lavori, afflitto a volte dall'idea di aver fatto cose mai abbastanza degne di non so più che cosa. Oggi ne sono pentitissimo... Ma ormai... Dietro uno spazio vuoto di alcuni cassetti mancanti ci sono due occhi verdi al buio: quelli miei da bambino. In un certo senso è anche ciò verso cui torniamo, l'oscurità della pre-esistenza. Una sorta di starchild. L'unico simbolo visibile di Torino è una piccola testa di torèt, la tipica iconica fontana torinese. E io per altro sono un toro ascendente toro. Sul cd invece è disegnata la stella a dodici punte della Mole Antonelliana, che Nietzsche associò alla figura di Zarathustra e la chiamò “Ecce Homo”. Certo, in quanto stella nera, qualcuno vi potrebbe anche scorgere un omaggio a Bowie e alla sua sconvolgente Blackstar. Ho amato Bowie fin da bambino quanto e più di me stesso. La sua morte mi lasciò annichilito. In ogni mio album, inoltre, è presente un piccolo simbolo alchemico dei cinque elementi. A “Mon Turin” è toccato quello dello akasha, termine sanscrito che designa l'etere o il quinto elemento, l'essenza base di tutte le cose del mondo materiale la cui principale caratteristica è Shabda, il suono. Questo perché la qualità dell'Etere o “Spazio” è la capacità di far esistere delle cose al suo interno. E il mio spazio esistenziale in questa vita, oltre che nella sfera del suono e della musica, si è avverato e svolto dentro la città di Torino.
Tornando a Leonardo Di Lella, è un ottimo artista, capace di sintetizzare la mia debordanza horror vacui con l'essenzialità horror pleni di un maestro Zen.

Abitavi vicino a piazza Statuto, luogo che ha dato il nome alla band mods omonima. Non ci potrebbe essere niente di più distante da quello che fai. Non sei stato influenzato dalla scena di quel periodo? Cosa ascoltavi? Quali sono i nomi che ti hanno influenzato per questo lavoro?

Sì, ma io negli anni '80 facevo musica rock e new wave. Certo non lo ska misto al r'n'b dei mods. Comunque, tra gli Statuto di quel periodo suonava anche un certo Ezio Bosso. Sia chiaro, lungi dal paragonare “Mon Turin” a un qualcosa di simile a un qualunque lavoro di Ezio, o di altri torinesi più “classici” (per esempio Einaudi, o Alfredo Casella, a cui ho dedicato un “Tema e contrasto” e via dicendo). Piazza Statuto è in realtà tante altre cose dal Palazzo Paravia, di fronte al quale gli Statuto ancora si ritrovano oggi ogni sabato pomeriggio. È considerata il vertice di uno dei due triangoli, qui quello del “male” con Londra e San Francisco (ma a Torino c'è anche quello del “bene” con Praga e Lione). Qui i romani, fuori dal quadrilatero della Julia Augusta Taurinorum, seppellivano i morti. Qui si ergeva la vicina forca dei condannati a morte consolati da Cafasso, uno dei molti santi sociali torinesi. Qui si erge il monumento ai caduti del traforo del Frejus, il Genio Alato della scienza e della tecnica che sfida i titani della bruta natura, e che alcuni vorrebbero invece essere rappresentazione di Lucifero che, con un gesto della mano, impedirebbe al sole di alzarsi sulla Gran Madre e ai morti di risalire dall'inferno. Qui c'è la guglia del 45esimo parallelo eretto da Giambattista Beccaria, inventore del parafulmine prima ancora che lo inventasse Benjamin Franklin. E qui nei pressi si dice ci sia l'ingresso nell'inferno, ma anche a una delle grotte alchemiche della città, quella in cui Apollonio di Tyana, il Cristo pagano venuto a Torino, lasciò un potente talismano per combattere le forze del male qui particolarmente concentrate. E qui costruirono i palazzi che dovevano ospitare i ministeri della prima capitale d'Italia, salvo poi la capitale essere stata trasferita prima a Firenze, poi a Roma, e la piazza teatro di tumulti; e ancora tumulti, come nel 1962, quando gli operai della Fiat e della Lancia vi si riversarono per protestare contro il sindacato della UIL, fatto ricordato anche dai 99 Posse (“Avrei voluto conoscervi”) e avanti... ma, soprattutto, da lì iniziavano le mie passeggiate quotidiane verso il centro della città, per lasciare la dimessa casa sul ballatoio verso il bello aulico del centro storico, le sue gallerie d'arte, i musei, le librerie ecc. Noi, anche se di limitate possibilità economiche, stavamo tuttavia nel cuore del Liberty più bello d'Europa, quello del Cit Turin, proprio di fronte a casa Fenoglio La Fleur, ma tutto era mescolato tra la borghesia intellettuale e noi figli di rispettati operai. Noi eravamo una famiglia modesta, ma il padre del mio padrino era il professore Luigi Vigliani, preside del Cavour che per primo aiutò Fubini, ostracizzato dal fascismo, a pubblicare, ed Edoardo Sanguineti, suo allievo, facendolo per altro leggere a Pavese. Una commistione pazzesca che ha salvato tanti di noi, a differenza di chi fu costretto a vivere nei ghetti dormitorio di Mirafiori, Falchera o Vallette.

"Dear" è sicuramente un album molto difficile per l'epoca in cui viviamo e per la superficialità indotta da ascolti fatti perlopiù da cellulare, ne sei conscio?

Ne sono assolutamente conscio, benché sempre e ancora incredulo. Non è proprio il futuro che fantasticavo da bambino negli anni '70. Comunque, a maggior ragione... Del resto, sono anche un educatore da quasi 40 anni.

Un brano, "Silent lights..." è stato cantato da Claudio Milano, che è anche un collaboratore di Estatica. Come vi siete conosciuti?

Claudio Milano lo conobbi credo in occasione di una prima intervista fattagli per la e-zine Kult Underground, con la quale collaboro ormai da vent'anni, e per la quale ho curate più di 900 interviste a musicisti e gruppi di ogni genere musicale, nazionali e internazionali. Poi prese parte al mio libro con cd “Neumi – Cantus volat signa manent” del 2011. Coinvolsi una ventina di nomi per reinterpretare fedelmente o liberamente antiche scritture musicali, dalla sumerica cuneiforme ai neumi medievali attraverso la semiografia musicale giapponese, tibetana, armena ecc. fino al futurismo e oltre. E poi avanti. Ci siamo seguiti e ammirati reciprocamente fino a collaborare per questa “Silent lights...” e per un suo remake di una mia canzone su un sonetto di Shakespeare, ancora inedita. Posso dire di Claudio che è un cantante assoluto, di una cultura e di una sensibilità uniche. Ha dedicato tutto se stesso e tutta la sua vita al canto e alla musica con una purezza intellettuale e artistica indiscutibile, specialmente di questi tempi. Chi voglia saperne di più, oggi ne ha facilmente modo grazie a internet. Qualche tempo fa mi ha detto di avere in cantiere un e.p. di miei brani da lui reinterpretati. Mi piacerebbe molto.

Nelle note, sempre riguardo al brano "Silent lights..." c'è scritto che è di Cesare Pavese. È la traduzione in inglese di una sua poesia? Qual è il titolo originale?

Sì, certo, come già detto prima, è la traduzione di una sua poesia. Sento spesso e sempre di più la macerante solitudine di Pavese anche nella mia vita, sperso e spaesato nella piazza del mondo di chi gira le strade tra le inutili luci, senza levare gli occhi, e si sofferma ogni tanto, nell'attesa ingiusta di quella donna che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.

Luci mute ingioiellano la notte
le collane, nei viali, dei lampioni.

La lunga macerante solitudine
del giorno vile tra le case altissime
si riaccende di tutto il mio sangue
e mi s’aderge agli occhi fino al cielo.
Luci bianche, nei viali di vertigine,
si snodano lontano e senza un suono,
senza un essere vivo.
Io sono solo in mezzo all’universo
di tutte queste luci.
Da ogni parte mi s’aprono nei viali
le polveri azzurrine.
I ricordi vilissimi
tacciono per un attimo.
Ed il cielo è abbagliato, scomparso.

Domani, sotto il sudicio del sole,
riprenderà la vita solitaria.

Nel libretto del cd, graficamente i brani sono suddivisi in quattro gruppi. Sono stati pensati come i movimenti di una sinfonia di musica classica?

No, ma – anche nel timing - come in un doppio long playing in vinile. Inizialmente era così stato pensato dalla Music Force. I costi del vinile però lo hanno impedito per ora. Per altro è la ragione per cui ho aggiunto quattro brani cantati come quarto lato, poiché il materiale avrebbe riempito solo tre lati.

L'album è stato registrato tutto nello stesso studio o in luoghi differenti?

Tutto a casa mia, nel mio studio, salvo il brano di Pensiero Nomade, presumo nella sua Roma.

Questo lavoro verrà eseguito dal vivo?

No. Non amo l'attività live. Voglio fare sempre cose nuove e non perdere tempo a ripetermi dal vivo tra prove e concerti. Non devo sbarcare il lunario con la musica, facendo da sempre un altro lavoro. Il tempo è poco. Bisogna per me fare cose nuove, evitare di ripetermi. Se altro tempo devo dedicare alla musica, sia solo per ricercare, capire, conoscere, comporre e registrare cose nuove. Passata questa vita, non potrò più farlo. Ciò che è fatto, è fatto. Via, verso qualcos'altro che mi dia almeno l'illusione di una maggiore completezza. Questa mia vita è stata già fin troppo per necessità ripetitiva e non ne avrò un'altra. Non così, per lo meno. Chi sa?

Ora che hai realizzato un sogno, quello della sua pubblicazione, sei per il momento appagato, oppure hai già altre mete?

Altre mete, sempre. A maggio, per il mio 57esimo compleanno, uscirà con Music Force “DeaR Me!”. È un ritorno al rock, un certo soft-rock venato di elettronica e di ethereal wave, ma c'è anche il ripescaggio di alcuni miei brani degli anni '80, un omaggio kosmiche music a Klaus Schulze e uno a Burt Bacharach, del funk e del Philadelphia Sound. Io sono cresciuto col Philly Soul... I miei nonni, del resto, tornarono da Philadelphia per ristabilire la mia famiglia in Italia. C'è anche un brano in cui racconto la loro storia, fatto con lo hang drum, il didgeridoo, un'arpa eolia e altre cose più etniche e sperimentali. Un disco molto vario... E, questa volta, dopo aria (New Roaring Twenties / Human decision required), terra (Out of Africa) e etere (Mon Turin), il simbolo alchemico sarà il fuoco. Soprattutto vi affronto la paura della morte, il bisogno di credere in Dio e in una vita che non smetta con la sola fine della nostra meravigliosa ma infine povera, disgraziata materia... Forse qualcosa con a che fare il mito della fenice. E seguirà spero tanto altro... Non posso più fermarmi. A fermarmi basterà l'insopportabile realtà.

DA QUARTO A TORINO

Ogni giorno da un Quarto alle nove a Torino
fino alle cinque del pomeriggio saturnino
la spedizione dei mille euro al mese
e la stracittà dei sabati risorge in via Garibaldi a strapaese.

Da bambino ebbi a un punto una nevrosi:
toccare ogni cosa quattro volte furtivo
perché il rito mi portasse un po' di fortuna
o non causasse ciò alcuna sventura.

Quattro come eravamo noi in famiglia
e quattro era per me il numero
della città dei grigi
che non sapevo assomigliasse punto a Parigi,
così tanto amata alla follia
da Federico Nietzsche,

anche se nella cabala della Smorfia
Torino fa 19
e la Torino liberata ora come allora
fa 26 per 1 come Aldo dice il che fa 9.

Il quattro potente, silenzioso, pratico, quadrato,
la materia stabile e concreta, inquieta però mansueta,
il perno e motore affaccendato risolutore
della nazione, l'accettazione, l'abnegazione, la negazione.

il Monsù Travet che si vede passare sui baffi
tanti che gli portan via e non fanno poi niente,
la prima della classe in un paese birichino all'incontrario
e ancora frammentario dove prende solo schiaffi... morali.

Tra i quattro fiumi e i fumi delle fabbriche
l'alchimia di Maria Profetissa
dell'uno che diventa due,
i due diventano tre e per mezzo del terzo
il quarto ultimo nato che compie l'Unità

fino alla Thyssen che brucia e un'inferno in eternit
chiude e sigilla un'epoca di fiducia già nel retrofuturo,
la rinuncia, la legge della sovrapposizione
del più giovane in alto
che sedimenta e pesa macigno sul più vecchio in basso,

i disoccupati che si dannano o si danno fuoco al centro per l'impiego,
il settore quaternario del Know how
ma del non sapere come vivere un altro giorno fino a sera
o sarà nuova scomparsa di ominidi.

Quattro passi nel quadrilatero romano
Roma caput mundi Torino kaputt mortum
a rivedervi il ballatoio miserabile e poi di lusso,
il quadrato sotto il triangolo del cielo,
la difesa, la maglia del mediano, la non Milano.

Sul tram 4 da Mirafiori a Porta Palazzo
da Barriera a Falchera sullo sfondo il fantasma
in quattro lettere l'acronimo
della terza produttrice del mondo
e l'inizio del terziario con la fine dei dinosauri sventrati.

Non quella del nostro poeta Betocchi
ma della tecnocrazia trilaterale,
è la realtà che ha vinto il sogno
perché il bisogno è pigliatutto e demenziale.

La realtà che ha vinto il mistero
della realtà non è come in De Chirico,
ma una fratricida caina Corda Fratres
al collo dei semplici e dei laboriosi.

DeaЯ
DeaЯ