Siamo ai titoli di coda di questa edizione numero sessantasette del Festival di Sanremo e alla fine ci rimane prima di tutto la consapevolezza di essere un po' più italiani … Un Festival che ha lasciato per strada non solo cifre da record e ascolti da capogiro, ma soprattutto la consapevolezza che gli italiani sono vincenti quando fanno gli italiani. Per troppo tempo abbiamo perso tempo a scimmiottare gli stranieri non rendendoci conto che la nostra peculiarità è soprattutto quella di essere noi stessi, culturalmente, socialmente e artisticamente parlando. Il Festival di Sanremo è stato da sempre il campione dell'italianità nel mondo, quando con Volare ci facevamo conoscere anche in America e con l'Italiano eravamo diventati orgogliosi delle nostre radici. Insomma il Festival fino a trent'anni fa era sempre stato il think tank della nostra essenza, l'avatar nazionalpopolare che ci emozionava e ci lasciava compiaciuti di fronte alla nostra arte o più semplicemente di fronte alla nostra tradizione.
E così che finalmente ci siamo nuovamente emozionati nell'ascoltare Tiziano Ferro cantare Luigi Tenco e nel riscoprire il meglio del varietà nostrano tra Crozza, Montesano, la pagina strappalacrime e la conduzione magistrale di Conti/De Filippi. Vedere poi Zucchero che allo stesso tempo rappresentava l'ospite internazionale da standing ovation e il campione della musica italiana nel mondo ha fatto venire i brividi pure a me che da anni non provavo coinvolgimento alcuno nell'ascoltare la kermesse sanremese. Certo il vincitore Francesco Gabbani ci ha colpito più per l'ironia del testo che per le musiche in pieno stile ultimi Coldplay. In effetti anche la seconda posizione del podio occupata da Fiorella Mannoia (cantautrice senza bisogno di presentazioni) sembrava aver premiato più la carriera dell'interprete, che la bellezza di una canzone di certo non troppo originale nel repertorio dell'artista romana. Però c'è un però grosso come i numeri da record del Festival. Prima di tutto il livello qualitativo medio della canzoni proposte sia dai giovani, sia dai big: molte al di sopra della media delle ultime edizioni.
Seconda riflessione correlata alla prima: su sedici brani arrivati in fondo almeno una dozzina erano ottimi, esaltando con spontaneità e naturalezza il made in Italy che (quello sì) ci hanno sempre invidiato all'estero, finché noi stessi non abbiamo cominciato a vergognarcene senza un motivo plausibile.
Terza riflessione: è evidente da un po' di anni che i Talent hanno portato una ventata non solo di freschezza e novità, ma anche di innovazione e qualità alle solite formule stantie/ingessate dei soliti noti. Vanno in questa direzione Sergio Sylvestre, Elodie o Michele Bravi.
Finiamo facendo un po' di conti: le canzoni migliori del Festival a parere personale sono state appunto Il Diario degli errori di Michele Bravi splendida ballata evocativa e un po' dream pop, su una voce affascinante e molto particolare stile Paolo Nutini; Vietato morire di Ermal Meta dal testo superlativo e l'aria un po' sarcastica. Uno dei pochi che dal vivo dava la sensazione di cantare con il vigore dell'anima. Sempre in rigoroso ordine di valore, Elodie con Tutta colpa mia (tra Mia Martini e Amy Winehouse su un testo "Tenchiano") e a seguire Marco Masini con Spostato di un secondo (un mix perfetto tra forza, sentimento e tempismo). Niente male Fabrizio Moro con Portami via, Clementino con Ragazzi Fuori e Michele Zarrillo con Mani nelle mani. Tra i giovani sicuramente una menzione speciale va sia a Maldestro con Canzone per Federica, sia a Leonardo Lamacchia con Ciò che resta; splendida Insieme di Valeria Farinacci.
Facciamo un piccolo flash-back tornando in cima alla mia classifica personale:
1) Michele Bravi con Il Diario degli errori stupisce prima per le sue atmosfere rarefatte di stampo nordico e poi per la tecnica vocale molto originale e dalla timbrica fortemente riconoscibile. Ambientazioni fulgide, ma dalle vibranti emozioni ci regalano un testo schietto, ma al contempo crepuscolare. La struttura sonora mostra altresì una metrica raffinata al servizio di una melodia spezzata tra un' elettronica onirica e un ritornello misurato su ogni singola parola. Un giovane talento che ricorda per sensibilità i maestri scandinavi del nuovo millennio.
2) Ermal Meta con Vietato morire ha saputo mostrare non solo cosa significa fare musica vera, ma cosa significa parlare d'amore senza toccare il solito cliché del rapporto di coppia: una canzone dalla profonda e impressionante forza emotiva, cantata fuori dai denti con l'anima e il cuore tra sofferenza e dignità, tra geniale drammaticità e fredda tecnica avanguardista. Un istant classic!
P.S.
Nota a margine: "A quando un premio alla carriera per Albano?" Se proprio non vogliamo premiare la sua canzone almeno teniamoci stretto questo colosso della musica italiana. Sia ben chiaro non ho mai posseduto un disco di Albano, ne credo sia necessario averne uno in futuro, ma credo che la sua interpretazione e performance sia stata per carattere, forza emotiva e potenza espressiva un esempio impareggiabile per le nuove generazioni. Se Albano fosse nato in America (loro che sanno vendere a prescindere dalla qualità) sarebbe per tutti "The Voice" del nuovo millenio. Leggenda...