Parlando di musica non è poi così difficile scoprire a posteriori che una galassia infinita di band siano transitate in questo circus nel disinteresse totale degli addetti ai lavori e della critica. Sottovalutate quando erano nella fase più fulgida della loro carriera per poi essere riscoperte a distanza di tempo a seguito di un'operazione nostalgica.
Questa sera al Bloser di Piazza Marsala di Genova uno di questi piccoli diamanti nascosti dal passare del tempo lo ritroviamo a esibirsi su un palco live dopo una carriera passata ai più inosservata: The Telescopes. Originari di Burton (Staffordshire) si formano nel 1987 capitanati dalla mente del gruppo Stephen Lawrie. Nel corso degli anni ci saranno vari cambiamenti di line-up, ma la costante sarà sempre lui Lawrie, il deus ex-machina che terrà in vita il progetto sino ai giorni nostri. Per molti, ma non per tutti, The Telescopes sono l'anello di congiunzione, la tessera mancante di quel Fil rouge che collega la scena indie, space-rock, shoegazing e psichedelica inglese, traghettandola dal post-punk anni ottanta al noise rock e dream pop di fine secolo scorso.
I nomi sono sempre quelli: Spaceman 3 (e dopo Spiritualized), My Bloody Valentine, Jesus and Mary Chain, Primal Scream. Non è un caso che un destino simile lo si possa tracciare anche per altri due leader come Jason Pierce e Bobby Gillespie, icone istrioniche e semisconosciute di due delle band appena citate nel lotto.
Quando arriviamo nei pressi del locale per un breve spuntino prima del concerto, vediamo in lontananza quelli che a intuito avevamo già individuato come possibili membri del gruppo. Quattro cappelloni dall'aria bohémien perfettamente a loro agio nell'attraversare la piazza senza timore alcuno di essere riconosciuti. Rock di altri tempi quando le star erano tali solamente sul palco, ma mai disdegnavano di mischiarsi con la gente comune, perché in primis l'arte non era mai per un élite. Difficile immaginare nel nuovo millennio un approccio così spontaneo e lontano dalla mera logica del business, punto ormai d'arrivo ahimè per tutto il mainstream della musica odierna. Questi individui, come una squadraccia di disadattati, si mostreranno alla fine di una dolcezza infinita.
Il Bloser di Piazza Marsala è l'abbreviazione di Beautiful Looser, nome tanto azzeccato quanto ambizioso, se pensiamo alla sua storia e alla sua attitudine nel rappresentare da sempre l'anima poetica e artistica di Genova, la città più teatrale d'Italia negli anni sessanta, punto di riferimento per i giovani che trovavano qui la palestra per emergere tra pareti spoglie e sotterranee, tra avanguardia e spirito libero. Oggi il Teatro è il fulcro di un locale a trecentosessantagradi vivace e coinvolgente, dove però ci si perde ancora in una clientela variegata e per certi versi contraddittoria. Qui non siamo a Milano è chiaro, dove i locali si dividono in maniera netta per tendenza, valori culturali e moda. Il look e l'apparenza diventa spesso veicolo di sostanza. Ma qui siamo ancora un target da educare e da catechizzare, ci mischiamo allegramente e senza timori. Siamo camaleontici e siamo in un certo senso anche più veri. Dissimuliamo la nostra vera entità o più semplicemente non siamo gli attori di noi medesimi. Insomma bisogna scendere negli inferi o meglio nel vero teatro della vita per riscoprire il perché The Telescopes hanno scelto di esibirsi proprio a Genova e al Bloser durante questa serata. La sala si riempie piano piano, man mano che ci si avvicina all'inizio dello show e le facce sono finalmente e immancabilmente quelle che ti puoi aspettare. Il pubblico è in larga parte uno zoccolo duro di appassionati che trovi immancabilmente a ogni raduno che si rispetti. Nessun spazio ai neofiti, perché in questo posto stasera ci arrivi se hai masticato un po' di scena indie. La gente è giustamente compattata nel sottopalco e lo spazio ridotto per i quattro componenti della band obbligano addirittura il secondo chitarrista a suonare in mezzo alla gente.
Lo spettacolo fin da subito mostra tutta la sua ortodossia: nessuna parola rivolta al pubblico, nessun cliché ripetuto morbosamente, ma solo musica e tanto rumore. La chiamavano musica della confusione e la musica noise diventa tale soprattutto quando a primeggiare sono l'istinto selvaggio e la cruda reminiscenza di un talento a dir poco naif, a scapito della forma canzone e dell'empatia. La sublimazione del tedio e l'incalzare di una forza tribale hanno condotto la performance, fatta di tracce lunghe e quasi sovrapposte, verso picchi di psichedelia di altri tempi. Immersi in un live che, probabilmente anche a causa dei volumi compressi, pagava dazio in termini di acustica, faceva sì che ci si riscoprisse in cattività ad ascoltare la propria anima ancestrale. Il pubblico si ritrovava così, ad un certo punto, a “fare il concerto”. Strumentazioni date da suonare ai presenti, contatto fisico e un legame che cresceva con il passare del tempo. La voce da austera e monocorde si trasformava in un urlo primordiale e l'aria da ipnotica e caotica si trasformava in un vagito che partiva dalla natura fino ad arrivare ai giorni nostri coinvolgendo tutti i sensi della civiltà industriale e post-industriale. Tutte le trame si ancoravano a un tappeto di sonorità distorte cadenzate da una sessione ritmica al limite del maniacale. Energia sprigionata in totale libertà come in una lunga jam session condita saltuariamente da una voce tenebrosa e sinistra. Ancora una volta fu chiaro per tutti che l'estetica potesse far presagire a una sostanza di valore.
Vedere questi vecchi pionieri della musica ci ha confermato in maniera tangibile la sensazione che anche oggi si possa fare musica per vocazione e non per fare il soldo facile e pesante. Ovviamente niente bis e nessun spazio alla nostalgia, quella vera, perché tutti sapevano che quello non era il solito spettacolo, i soliti artisti e il solito pubblico. Il ricordo ci sarebbe rimasto nelle orecchie e negli occhi di un Lawrie che, con nonchalance, a fine concerto avrebbe inforcato gli occhiali da dottore per vendere dischi e gadget al banchettino improvvisato in fondo alla sala.
La discesa degli dei.