“L’effetto Ariston” inteso come Teatro di Sanremo è sempre un mix ideale di nostalgia, effetto vintage e perché no, cultura nazionalpopolare. Si sprecano nell’atrio e nei corridoi le foto d’epoca e le gesta di un Festival, quello della canzone italiana, che non può lasciare indifferente nemmeno il sottoscritto che tante volte ha criticato la sua forma desueta e sorpassata ma che, devo ammettere, è pur sempre uno status della tradizione italiana. Quelle immagini non solo trasudano storia di una società in piena evoluzione, ma ci restituiscono in tutta la loro semplicità atti e abbigliamenti che adesso ci appaiono solamente demodé, ma che in realtà erano la trasgressione più marcata vista fino a quel momento sui palchi d’Italia. Niente a che vedere con quella posa posticcia e talvolta becera dei nostri tempi che “ha sotterrato l’ascia di guerra” in nome del marketing e del look d’apparenza svuotato di qualsiasi simbologia e significato.
Ma veniamo a noi e alla serata della consegna Targhe Tenco 2014. Bisogna riconoscere che tutta l’atmosfera anni sessanta e settanta delle sale interne, con i suoi colori sul rosso di cinematografica memoria, è stata per una sera inondata e contaminata da un innato “profumo” intellettuale e per certi versi intellettualoide della manifestazione regina della critica musicale d’autore in Italia. Tengo subito a precisare che la mia pungolata non si riferisce né ai contenuti, né all’estetica dell’evento (peraltro molto severo, semplice e misurato sia negli allestimenti, sia nelle scenografie), ma semmai in certe esagerazioni della platea in gara continua nell’apparire forzatamente campione di un pensiero elitario e radical-chic.
Si parte subito con una meravigliosa e toccante reinterpretazione di brani della canzone italiana in versione rivisitata e aggiornata da parte di Raiz e Mesolella. Blues, soul, jazz e chi più ne ha e più ne metta sono le influenze che cambiano verso a certi brani molto conosciuti della cultura popolare italiana e napoletana in particolare. Davvero da brividi la voce del leader degli Almamegretta lui sì vero interprete del sangue napoletano. Da applausi scroscianti l’accompagnamento alla chitarra di Fausto Mesolella. Una performance di alta scuola in acustica che ha mostrato il lato più emozionante della tradizione popolare vincendo la Targa destinata a interpreti di canzoni non proprie (sia cover sia brani originali) con “Dago Red”.
A ruota l’esibizione di Loris Vescovo premiato nella categoria album in dialetto. Si è voluto per una volta mettere in primo piano “il parlato locale”quindi, nella fattispecie, il dialetto friulano che Loris Vescovo ha saputo portare alla ribalta in tutte le sue opere. Viene così con questa targa riconosciuta e premiata tutta la carriera già in passato oggetto di ben tre nomination al premio finale delle Targhe Tenco. Loris Vescovo come Piero Sidoti nel 2010, la nuova scena cantautorale friulana che è stata messa da tempo sotto la lente d’ingrandimento. L’album premiato “Penisolâti” è un grido di dolore. Un evidente atto d’accusa per lo stato d’abbandono del nostro Paese.
Arriva quindi, già a metà serata, il premio alla carriera con il vincitore Premio Tenco 2014 nella persona di David Crosby cantautore californiano. A questo punto bisognerebbe aprire un capitolo a parte vista l’immensa e inesauribile produzione dell’artista americano. Sono sicuro che ognuno di noi conosca o abbia vagamente coscienza di cosa abbia rappresentato Crosby per la storia della musica. Un artista con l’A maiuscola, una carriera sempre vissuta da protagonista con innumerevoli collaborazioni e partecipazioni a progetti più o meno longevi. La performance? Una tensione artistica e uno spessore la cui misura si riconosceva dai piccoli dettagli: l’accordare la chitarra dopo ogni canzone, l’essere sempre ironico e tagliente negli intermezzi musicali, essere naturale e semplice senza bisogno di sembrare. Parlano per lui le sue gesta musicali e da privato cittadino. Nessun segno di protagonismo, un’infinita sensazione di pace e serenità trasmessa prima ancora dallo sguardo che dalle corde e dalla voce. Insomma un mostro sacro di sobrietà e saggezza, un’artista immenso che anche sul palco dell’Ariston ha mostrato come la musica sia un linguaggio universale e soprattutto un generatore di sogni ed emozioni del tutto personali benché contemporaneamente condivise da tutti (sia in senso spaziale sia in senso temporale). Quelle sensazioni che ti marchiano una stagione della vita, un modo di essere e di vivere la vita. Ma sono le “brand new song”, come dice lo stesso David chiedendo al pubblico una traduzione calzante in italiano, a proiettare l’esibizione verso “Croz” suo ennesimo e ultimo sforzo discografico già definito disco evento dell’anno.
Per la categoria miglior opera prima il premiato con il suo “Le cose belle” è Filippo Graziani, figlio d’arte del mai dimenticato Ivan (Graziani). Suoni eterogenei provenienti dalla stratificazione della sua pur breve carriera portano a contaminazioni tra un simil stone rocker e musica cantautorale. Bella voce e testi variegati per un’opera, appunto, non solo prima ma ricca di poesia pungente a volte dolce a volte amara. Una voce suadente prestata al rock d’atmosfera.
Non me ne voglia David Crosby ma al cospetto di cotanta celebrità e di un curriculum da monumento del rock, le due vere chicche della serata sono state i Virginiana Miller vincitori nella categoria migliore canzone e Caparezza vincitore nella categoria migliore album. Prima salgono sul palco il sestetto livornese. Venticinque anni di onorata carriera per i critici più esigenti, ghost band per i più, dimostrano che si può essere rock and roll star anche se non si proviene da un Paese anglosassone. Diciamo che per intensità, pathos e poesia sfornano una performance da brividi senza pari, eseguendo in sequenza “Una bella giornata”, “Anni di piombo” e la premiata “Lettera di San Paolo agli operai”. Tutti singoli estratti dal loro ultimo album “Venga il regno”. Modo di scrivere oggetto di studi accademici, presenza scenica minimal secondo la lezione dei maestri Pink Floyd nell’arte del non apparire e fare di ciò la notizia, suono in continua evoluzione molto vicino ai corregionali Baustelle e aggiungerei, per sofferenza teatrale e mission ascetica, ai primi Radiohead. Tutto questo è il concentrato di un talento colpevolmente sottovalutato nel tempo e solo negli ultimi anni riconosciuto ed esaltato. Quel talento che stordisce da dentro e ti costringe prima a compiacerti e poi imbarazzato a cercare inavvertitamente la stessa emozione nel prossimo cercando di sfiorare con lo sguardo una stessa sensazione che fa capolino negli occhi del prossimo. Bravi davvero!
Infine la vera sorpresa per il sottoscritto è stata l’esibizione di Caparezza vincitore nella sezione album con “Museica”. C’è tutto in questi pochi brani presentati alla platea: esplosività, testi abrasivi, testi sarcastici, rap coinvolgente, presenza scenica strabordante e soprattutto tante, tante idee. Caparezza buca non solo lo schermo con la sua chioma avvolgente, ma soprattutto le generazioni arrivando in egual misura ai giovani, ai giovanissimi, agli ex-giovani e adesso anche ai meno anziani. Ho visto ballare e “reppare” persone over sessanta, ho visto ragazzi cantare a squarciagola i testi e i cori, parola per parola. Insomma artista vero, che vince e convince. Un fenomeno che per una volta non fa il fenomeno e se lo fa non è certo perché gli mancano i contenuti. A meno che non si sia degli inguaribili misoneisti.