Intervista a Erik Ursich

Pubblicato il 21/01/2014 - Ultimo aggiornamento: 27/03/2016

Argomento: Musica

Conosco Erik Ursich ormai da parecchi anni e lo considero uno dei più capaci musicisti presenti in Italia. Collezionista e appassionato di strumenti musicali analogici, ha una erudizione in materia notevole. Come musicista ha realizzato lavori solisti che appartengono all’ambito sperimentale-avanguardista elettronico; ha fatto parte di una originale formazione, Piripacchio e i Mostriciattoli, tra le prime a realizzare cover di sigle di cartoni animati giapponesi in versione hard-core punk; nel 2003 e 2004 prende parte al bizzarro progetto Señor Tonto; dal 2003 inoltre suona il basso con i Grimoon, una delle più originali formazioni indie ben al di sopra del torpore generale che affligge il genere. È inoltre un profondo conoscitore di b-movie che ha collaborato spesso con la mia fanzine Abastor e con cui ho scritto il libro Attacco Alieno! per la bolognese Tunnel Edizioni nel 1998.
Ho così voluto proporre a Erik una intervista per Estatica che affronti le varie sfaccettature della sua attività, certo di invogliare chi ancora non lo conosca ad ascoltare i lavori di questo eclettico e inventivo polistrumentista.

Che cosa ti ha spinto a suonare?

Il fatto che fin da piccolo sono stato circondato da musica e strumenti musicali... presi in mano per curiosità, ho visto che mi riusciva facile farci uscire cose interessanti, per cui ho continuato!

Qual è stato il tuo imprinting musicale, quali sono le prime cose che hai ascoltato e a cui rimani maggiormente affezionato?

Il primo disco di cui ho ricordi precisi e forti è il 45 giri di Profondo rosso… l’ho ascoltato fino allo sfinimento! Andavo ancora all’asilo!
Attorno ai 6 anni ho avuto il mio primo contatto con la musica sperimentale, quando mio zio mi prestò alcuni dischi di musica contemporanea degli anni 60 tra cui La fabbrica illuminata di Luigi Nono e soprattutto Le voyage d’apres le livre des morts tibetain di Pierre Henry. Un disco per me seminale nel senso etimologico del termine! Tutt’ora resta uno dei miei dischi preferiti in assoluto.
Tra la fine degli anni 70 e i primissimi anni 80 ho ascoltato tantissime colonne sonore e sigle tv… a parte naturalmente le sigle di telefilm e cartoni animati (non solo giapponesi, ma anche quelli di Hanna & Barbera, che avevano sigle fantastiche… ho ancora le cassette che mi registravo davanti alla tv all’epoca!), adoravo gli Oliver Onions (Guido & Maurizio De Angelis), veneravo i Goblin, Ennio Morricone, e idolatravo John Carpenter!
Poi c’è stato Oxygene di Jarre… andavo alle medie. Altra pietra miliare del mio imprinting senza dubbio!
Al liceo infine c’è stata l’esplosione vera e propria, nel senso che ho cominciato ad ascoltare musica in quantità industriali e sempre crescenti. Prima hard-rock (Kiss, Deep Purple), poi heavy metal (gli immancabili Iron Maiden, Judas Priest, i primi Helloween), poi thrash (Slayer su tutti) e black (Venom, Mercyful Fate & King Diamond, Bathory), e soprattutto una manciata di gruppi che facevano un metal personalissimo e fuori dagli schemi (Voivod e Celtic Frost su tutti), che ancora oggi riescono a stupirmi… poi anche tantissimo hardcore-punk (Raw Power, Negazione, Black Flag, Dead Kennedys, Minor Threat, Exploited) e i primi gruppi che univano l’h/c punk al metal (Discharge, Accused, Ludichrist, Ratos De Porao), nonché i primi gruppi grind-core (Carcass, Napalm Death, Sore Throat), ma anche new wave (Bauhaus, Cure), e tanto prog anni 70 (Balletto Di Bronzo, Area, Demetrio Stratos, King Crimson, Soft Machine), per riapprodare poi nell’ultimo anno di liceo al mio “vecchio” amore per l’elettronica… scoprii i corrieri cosmici (Tangerine Dream, Klaus Schulze), e approfondii la conoscenza di quegli artisti che mi aveva fatto scoprire mio zio anni prima (Pierre Henry, Luigi Nono, Luciano Berio, Bruno Maderna, Ilhan Mimaroglu, Cage, Stockhausen e via dicendo).
Più o meno nello stesso periodo scoprii infine il minimalismo (Terry Riley, Steve Reich, il primo Philip Glass) e soprattutto l’industrial (Throbbing Gristle, Monte Cazazza, Cabaret Voltaire, SPK, Nurse With Wound) e in generale la musica che si fondava sul rumore vero e proprio, ritmato (Esplendor Geometrico) o statico (Brighter Death Now) che fosse, e questo fu forse l’imprinting più forte che ho avuto in quegli anni… è stato infatti in quel periodo che ho cominciato a comporre le mie prime cose, e si trattava appunto in maggioranza di musica elettronica, sperimentale e rumoristica.
Gli imprinting sono poi continuati anche negli anni successivi, anche se ovviamente con minor frequenza (ma non con minor intensità). Posso citare i Confusional Quartet (autori di un personalissimo jazz-rock sblienco quasi fumettistico), Eliane Radigue (compositrice di musica elettronica minimale e ipnotica dal carattere monolitico ed estremamente meditativo… allieva guardacaso di un certo Pierre Henry), la Pauline Oliveros elettronica (I of IV resta una dei miei pezzi preferiti in assoluto), i Cluster (tra i gruppi storici del kraut-rock sicuramente il mio preferito), la musica tibetana rituale (specie quella più oscura e sonicamente inquietante – penso ad esempio ai Phurpa), anche se probabimente l’imprinting più forte che ho subito negli ultimi 20 anni restano i Kyuss (il gruppo che ha praticamente inventato lo stoner-rock riuscendo allo stesso tempo a non far mai parte del filone per eccesso di originalità!).

Rock o elettronica?

Beh, ho risposto in parte prima… non posso fare a meno dell’uno come dell’altra. In un certo senso potrei dire che a me piacciono gli estremi in generale, che si tratti di rock, metal, punk o elettronica… vado sempre a cercare le cose che si spingono più in là!

È vero che sei la reincarnazione di Jimi Hendrix?

Ahahahahahahahahahah!!!!!!
Beh, magari! A parte gli scherzi, per me Hendrix è a livello di divinità! Quello che ha fatto lui con 6 corde, un ampli e qualche pedalino non l’ha mai fatto nessun altro al mondo, mai! E poi è un personaggio dotato di un fascino e un carisma davvero fuori scala! Ogni qual volta mi capita di vedere uno speciale o un filmato di qualche suo concerto non posso evitare di guardarlo e ne resto affascinato come se lo vedessi per la prima volta! Ogni volta! Magnetismo puro!

Sì, è vero, Hendrix è un gradino sopra di tutti gli altri. Io non amo particolarmente il rock “classico”, né impazzisco per la psichedelia USA, ma Jimi Hendrix lo ascolto sempre con trasporto: trascina e seduce in modo ipnotico! In questo periodo mi ritrovo spesso ad ascoltare gli album della Jimi Hendrix Experience.
Torniamo a te, una cosa che colpisce molto è la tua strumentazione che presenta una quantità di oggetti meravigliosi, dai synth analogici storici come Moog e Korg agli amplificatori Orange. Vuoi fare un breve elenco della tua collezione, descrivendoci le sonorità dei singoli strumenti e i loro vantaggi/svantaggi?

Beh, partiamo subito col dire che per come la vedo io, più uno strumento è vecchio e maggiori sono le possibilità che suoni meglio di uno nuovo!
La mia non è una presa di posizione: è un dato oggettivo che i materiali di una volta erano di qualità superiore a quelli di oggi, e non parlo solo di legni ma anche di componentistica ed elettronica! Non è raro trovare amplificatori valvolari degli anni 60 che montano ancora le valvole dell’epoca e vanno alla stragrande! Mentre ad amplificatori costruiti oggi bisogna cambiare le valvole almeno ogni due tre anni, nella migliore delle ipotesi!
Paradossalmente poi, negli strumenti vecchi perfino i difetti finivano per caratterizzare il suono in modo positivo… è famoso l’esempio del Minimoog, che doveva buona parte del suo timbro caratteristico a dei piccoli errori di progettazione che in fase di produzione si è deciso di lasciare inalterati perché in effetti il synth suonava meglio in quel modo! Oggi invece è tutto così perfetto, preciso ed equilibrato che finisce per diventare noioso!
La superiorità timbrica non è comunque la sola cosa che mi fa preferire gli strumenti vecchi. C’è anche il discorso estetico. Il gusto estetico dei decenni passati – e in particolare del periodo che va più o meno dagli anni 60 e 70 fino all’inizio degli anni 80 – caratterizza la maggior parte di questi strumenti, che sono a tutti gli effetti delle piccole opere d’arte di design.
C’è infine un discorso prettamente “romantico”, ovvero che ognuno di questi strumenti, avendo mediamente 30 o 40 anni sulle spalle, ha una sua vita, una sua storia personale, fatta di persone che l’hanno usato prima di me, di strisci, di bottarelle, di acciacchi e piccoli difetti con i quali bisogna imparare a convivere proprio come si fa con le persone… insomma, questi strumenti sono vivi e hanno un loro carattere!
Rapportarmi con questo tipo di strumenti mi viene molto più naturale che non entrare in un negozio e cercare tra 100 chitarre tutte uguali una che mi trasmetta qualcosa di particolare, cosa che appunto difficilmente potrà accadere, dato che sono tutte uguali! In effetti, negli anni ho sviluppato una totale idiosincrasia con gli strumenti nuovi. Quando mi capita di entrare in qualche negozio di strumenti musicali super accessoriato, con tutte quelle cose nuove luccicanti e senza la minima imperfezione, mi viene la nausea!
L’unico punto a favore che posso riconoscere agli strumenti nuovi, ovvero l’affidabilità, alla fine è relativo e si tratta in ultima analisi di priorità. Per me la timbrica viene prima di tutto… non potrei mai mettermi ad usare uno squallido virtual-synth solo perché è affidabile… preferisco 1000 volte usare il mio vecchio Minimoog che si scorda ogni due minuti ma che ha una pasta sonora che ti manda in estasi mistica ad ogni nota che emette!!!

Venendo a degli esempi in particolare, ho già citato un paio di volte il Minimoog perché è uno degli strumenti più iconici (e a ragione) della storia, e anche uno dei primissimi synth analogici che sono riuscito a reperire più o meno all’inizio della mia ossessione (anni 90), grazie ad un mio amico (grazie ancora Ale!) che all’epoca lavorava in un noto negozio di strumenti musicali delle mie parti e che era riuscito ad avere in anticipo la soffiata che stavano per rientrare un Minimoog! Quando sono andato a prenderlo avevo quasi le lacrime di gioia! Mi ricordo ancora il quiz a cui mi aveva sottoposto il padrone del reparto prima di vendermelo (se mai dovesse leggere questo articolo, lo saluto: ciao Denis!). Mi fa “Ti rendi conto, vero, di cosa ti sto dando? Adesso ti faccio una domanda, se rispondi male non te lo vendo. Chi era Buchla?” e io “Era quello che costruiva quei synth modulari pazzeschi alla fine degli anni 60, che forse erano ancora meglio di Moog e ARP” e lui “Bene! Promosso! Puoi comprare il Minimoog!”
Ti posso citare poi l’EMS Synthi AKS (lo strumento musicale che ho cercato di più in assoluto in tutta la mia vita: 14 anni di ricerche per trovarlo!), leggendario synth inglese “a valigetta”, che la maggior parte delle persone conosce per la sequenza elettronica su On The Run dei Pink Floyd, ma in realtà usato da una sfilza di artisti degli anni 70, da Battiato a Tim Blake dei Gong, passando per Conrad Schnitzler, Klaus Schulze e quasi tutti gli artisti elettronici dell’epoca, oppure il Mellotron (in pratica il primo campionatore della storia, famoso soprattutto per i suoi commoventi suoni di archi, flauti e cori), l’Hohner Clavinet (lo strumento RE del funky anni 70), il Solina String Ensemble (definito anche “il mellotron dei poveri”, ma in realtà strumento dal carattere tutto suo), o, per restare in Italia, il Farfisa Compact Deluxe (organo dal suono unico) o l’Elka Synthex (uno dei polysynth più potenti della storia, orgoglio italiano ad opera del grande Mario Maggi).
Un synth al quale sono affezionatissimo è lo Steiner-Parker Synthacon, di cui se non sono il solo possessore in Italia, poco ci manca… si tratta di un synth americano, molto raro, di una potenza e un’espressività senza pari, quando lo si usa sembra parlare!!! La caratteristica particolare di questo synth è che nonostante la potenza e il numero quasi infinito di opzioni a disposizione, è di un’immediatezza sconcertante, in pochi secondi si possono costruire suoni complicatissimi (che su un Moog modulare richiederebbero 5 minuti a passar cavi)… uno strumento divertentissimo da usare!
Altro synth unico e divertentissimo è il Moog Sonic VI, nato all’inizio degli anni 70 come synth didattico (e infatti più scadente dal punto di vista componentistico rispetto ai moog “normali”), ma con caratteristiche davvero peculiari che nessun altro Moog ha mai avuto né prima né dopo (bifonicità, doppio LFO e ring modulator) e dal suono molto più acido e aggressivo dei Moog classici, nonché dalla potenza modulativa davvero notevole. Questo mi ricordo che sono andato a prenderlo da un tipo a Imola e sono arrivato a casa col mal di schiena, dato che ci ero andato con la mia 128 coupè (macchina stupenda ma non molto comoda per le lunghe trasferte)!
Finora ho citato solo synth e tastiere perché sono stati la mia ossessione per moltissimi anni (finchè i prezzi lo permettevano!), ma io in realtà ho cominciato suonando la chitarra elettrica, negli anni 80. Anche se in effetti come chitarrista per molti anni non sono mai stato interessato al vintage, anzi, non me ne fregava niente, suonavo e basta… è stata l’ossessione nata con synth & Co che mi ha contagiato, e quindi ho cominciato anche lì a cercare ampli e chitarre vecchie, e indovina un po’… anche lì valeva la regola “più è vecchio meglio suona”!
Ed ecco quindi nascere nuove ossessioni/amori, come quello per la Gibson Les Paul Custom nera (chitarra che mi ha perseguitato per oltre 10 anni… ne ho avute per le mani almeno 4 prima di trovare finalmente quella che suonasse come dicevo io!), per gli amplificatori Hiwatt (l’ampli della mia vita), per i pedalini (ho perso il conto di quanti ne ho)… e non dimentichiamoci che c’è anche il settore bassistico (dato che nel frattempo avevo cominciato a suonare regolarmente anche il basso) con il mio amore sviscerato per il Rickenbacker 4001 (il mio primo basso e quello che uso tutt’ora di più) e per gli amplificatori dell’Acoustic (il suono che esce da quei vecchi dinosauri è senza paragoni)… senza dimenticare vecchi amori come l’italianissimo Lem G-80 (amplificatore per chitarra degli anni 70 che però suona ancora meglio con il basso), che è stato uno dei primissimi amplificatori che ho usato quando ho messo in piedi il mio primo gruppo, all’epoca prestato da amici e successivamente (dopo che gli amici se lo erano ripreso) cercato per anni fino al ritrovamento di un magnifico esemplare nella soffitta di un signore di Conegliano!
Mi fermo qui per pietà nei confronti dei lettori… fosse per me potrei andare avanti a parlare per pagine e pagine…

Sono d’accordo su tutto quello che dici. Tra l’altro ho provato a suonare con il tuo Mini Moog ed è stata un’esperienza vicina all’orgasmo! Poi sulla questione del vecchio vs. nuovo, non posso che confermare quello che dici. In molti campi la mia esperienza giunge alle tue stesse conclusioni: i primi View-Master in bachelite degli anni quaranta/cinquanta erano perfetti, quelli odierni sono dei “plasticoni” che funzionano male e in cui si vede peggio. I vecchi registratori a bobine avevano una qualità superiorie alle cassette e, nei casi dei registratori stereo professionali analogici, superiori persino al vinile e ai CD. E così è anche per gli Hi-Fi, uno dei miei ultimi acquisti è un ampli Sansui che avrà una trentina d’anni. Non parliamo della qualità della musica digitale odierna, che talvolta fa venire i brividi tanto è inascoltabile per quanto è compressa… I primi giocattoli in plastica degli anni sessanta/primi anni settanta erano qualitativamente migliori di quelli fatti dopo… e via elencando. Il tuo rapporto con lo strumento vecchio io lo provo col vinile: non riesco a comprare altro che dischi usati, il disco nuovo, sia esso in vinile o CD, non mi trasmette nulla. Al di là del fatto che quanto prodotto nell’ultima quindicina di anni raramente mi interessa… Quindi è quasi superflua la domanda successiva: digitale o analogico?

Analogico tutta la vita, a me piace quel tipo di suono! Caldo, vivo, vibrante, pieno. Ovvio che ci sono tantissimi strumenti digitali che suonano divinamente… ho avuto e usato anch’io strumenti digitali in passato, e per carità, ci tiravo fuori suoni interessantissimi, ma dopo un po’ mi stufavano sempre e suonavano comunque troppo artificiali per i miei gusti.
Ma il limite più grosso per me è sempre stato dal punto di vista performativo: la complessità degli strumenti digitali non permetteva di avere, come nei synth analogici, tutti i parametri per modificare il suono a portata di mano. Per modificare i suoni di un qualsiasi synth digitale avevi a disposizione una misera manciata di tastini e dovevi passare la vita tra meù e sottomenù… per me, che praticamente non uso mai suoni preset ma modifico sempre tutto in tempo reale, era un vero inferno!
È solo uno il synth digitale che ho conservato: un vecchio Yamaha DX7 (che ogni tanto uso ancora perché ha in effetti dei suoni inimitabili), ma lo uso pochissimo perché ogni volta che devo ricominciare la trafila dei menù e sottomenù mi passa la voglia!

Parliamo del tuo lavoro solista: hai affrontato i generi più disparati nei tuoi lavori, si va dal funky all’hard rock delle colonne sonore dei corti, fino alla sperimentazione elettronica d’avanguardia nei tuoi lavori solisti più “impegnati” (mi riferisco soprattutto allo splendido Kanashii, stampato su vinile grigio dalla Punch Records). Che cosa ti porta a realizzare questi lavori? Che cosa vuoi esprimere con essi?

Il fare dischi è una cosa che mi è semplicemente successa strada facendo, senza che io la cercassi… Del resto ho passato quasi un’intera decade a fare musica solo per me stesso, senza interessarmi minimamente di contattare etichette o altro… negli anni 90, quando ho dato vita alla Vacca Stracca Recordings, la musica che producevo era rivolta esclusivamente a me stesso… occasionalmente vendevo qualche demotape, ma non era quella la mia priorità… a me interessava solo esplorare il più possibile gli universi che mi si spalancavano quando giravo i pomelli dei miei synth, piegando comunque ai miei scopi qualsiasi altro oggetto che trovassi stimolante: poteva essere una chitarra con degli oggetti ficcati tra le corde come varie parti della mia bicicletta (i raggi e le molle della sella i particolare mi hanno dato molte soddisfazioni).
L’intensità compositiva con cui ho affrontato quegli anni era qualcosa di quasi spaventoso! Passavo spesso periodi di settimane e anche di mesi sempre chiuso nel mio studio a registrare in continuazione e a riascoltare quello che facevo! Era un ciclo continuo e infinito che è durato anni ma ad un certo punto è imploso, collassando totalmente! Difatti poi sono stato fermo diverso tempo per cercare di capire…
E quando sono ritornato l’ho fatto appunto con un atteggiamento cambiato. Era come se ad un certo punto per la prima volta avessi alzato lo sguardo e mi fossi accorto che c’era anche un mondo esterno. Un mondo con cui interagire.
E così sono nate le collaborazioni, le colonne sonore, gli spettacoli dal vivo, i dischi eccetera…
La risposta a questa tua domanda in effetti non può essere univoca. Se me l’avessi fatta negli anni 90 ti avrei risposto che quello che mi spingeva a fare quello che facevo era una volontà di esplorazione personale, un discorso di ricerca intima esasperata e di sperimentazione a 360° sulla materia “suono”. Oggi appunto il discorso è più di interazione con gli altri, lavoro più su commissione (colonne sonore) e collaborazione (side-project eccetera). Certo, se capita l’occasione di avere un mio lavoro personale pubblicato sono contentissimo (come è successo appunto con Kanashii e le altre uscite per la Punch Records oppure con 3048 prodotto da Farmacia901), e mi tuffo a lavorarci con l’entusiasmo di un tempo! Ma se non c’è un progetto concreto all’orizzonte, difficilmente mi viene spontaneo mettermi a comporre qualcosa. Diciamo che ho spostato l’attenzione dal lato compositivo a quello di ricerca di materiali e di conoscenza empirica. Sto investendo un sacco di energie e di risorse per trovare strumentazione di un certo tipo, con l’obbiettivo magari un giorno di aprire uno studio e mettere a disposizione degli altri quello che è il frutto di anni e anni di ricerche e ossessioni per un determinato tipo di sonorità. Ma qui siamo in pieno territorio sogni nel cassetto, di cui non vale neanche la pena parlare in tempi in cui ogni progettualità è annichilita dalla situazione attuale!

Uno studio di registrazione con a disposizione quegli strumenti sarebbe una cosa fantastica. Sarei il primo ad usufruirne! Comunque a un certo punto hai dato vita a Piripacchio e i Mostriciattoli, con cui facevi cover di sigle di cartoni animati giapponesi. Raccontaci di questa esperienza, quanto è durata e perché è finita.

Gli anni dei Piripacchio sono stati gli anni più belli di tutta la mia vita! Quando penso ai Piripacchio penso ad una cosa sola: divertimento allo stato puro!!! 4 persone animate dallo stesso spirito, dalle stesse intenzioni, dalla stessa voglia di non prendersi mai sul serio neanche per 1 secondo…
Oggi di gruppi che fanno cover di sigle tv ce ne sono a vagonate, ma all’epoca siamo stati tra i primissimi… ma soprattutto il modo in cui le facevamo noi non è mai stato copiato da nessun altro, dato che noi le canzoni originali spesso le trituravamo, centrifugavamo e riassemblavamo in modo a volte psicopatico! Avevamo poi anche un repertorio di canzoni nostre (originali voglio dire, non cover) ai confini dell’assurdo… di base eravamo un gruppo hardcore-punk, ma in realtà facevamo semplicemente tutto quello che ci passava per la testa, dal walzer alla samba, passando per l’elettronica e il rumorismo, con approccio a volte quasi surrealista! Il tutto nell’ottica del divertimento puro e dell’intrattenimento in primis di noi stessi!
Il gruppo è nato intorno al 1991, e con tribolazioni varie e alcuni cambiamenti di formazione è andato avanti fino al 1998. È finita perché purtroppo il cantante nell’ultimo periodo aveva dei problemi di salute abbastanza pesanti e non ce la faceva più. La sua decisione di uscire dal gruppo per questa ragione ha determinato in pratica lo scioglimento definitivo, dato che andare avanti senza di lui non aveva senso per nessuno degli altri componenti!
Il tutto è avvenuto con estremo rammarico ma nella serenità più totale, infatti ancora oggi tutti i Piripacchio sono rimasti amici tra loro e periodicamente si vedono… uno degli argomenti che si toccano ad ogni ritrovo è naturalmente la voglia di ritrovarsi a suonare, ma finora non è più successo!
Ed è un peccato perché eravamo un gruppo decisamente unico e fuori dagli schemi. Ancora oggi ogni tanto mi capita qui e là di incappare in qualche vecchio fan dei Piripacchio, e i discorsi che scaturiscono da questi incontri sono immancabilmente colorati di nostalgia, anche se una nostalgia di tipo sano, di quella che quando parli dei tuoi ricordi ti fa sorridere, non diventare triste!

Chi erano gli altri componenti del gruppo?

Paolo “Pax” Calzavara alla voce, Alessandro Marton alla batteria e Alvise Rossi al basso fino al 1994. Mentre poi dal 1995 al 1998 sempre io, Pax e Ale ma con Ignazio Guidotto al basso.
In realtà altri amici e musicisti sono passati tra le fila dei Piripacchio, ma queste due sono state senza dubbio le formazioni più classiche e le più durature.

Poi sono arrivati i Grimoon. Come sei entrato in questo gruppo? Da quanto tempo ne fai parte?

I Grimoon sono capitati in un momento molto delicato della mia vita. Era la fine del 2003 e stavo appena uscendo da un pesantissimo esaurimento nervoso. Se non avessi cominciato a suonare con loro, non so cosa sarebbe successo… ero preso proprio male in quel periodo! Posso dire senza retorica che si è trattato uno dei casi in cui la musica mi ha salvato!
Sono stato fortunato, perché io sono di gusti estremamente difficili… se si fosse trattato di uno dei tanti gruppetti senza niente da dire, me ne sarei tirato fuori immediatamente, e invece, nonostante come proposta musicale sia agli antipodi da qualsiasi tipo di musica io avessi mai fatto prima e dopo, si trattava però di qualcosa di estremamente originale e stimolante, una musica piena di ottimo gusto e di idee personali che non si rifaceva a niente di precostituito né voleva scimmiottare altre cose. Peraltro a loro serviva un bassista, ruolo che finora io non avevo mai ricoperto (non possedevo nemmeno un basso, all’epoca) e che mi intrigava molto!
Insomma, mi sono buttato un po’ alla cieca in un progetto che non conoscevo, fidandomi del mio istinto. E a volte seguire l’istinto è la cosa migliore che si può fare.

Che cosa ti ha maggiormente colpito favorevolmente di questa formazione transnazionale?

Come dicevo prima l’originalità. Il fatto di non essere mai banali e scontati. Il turbinio di idee che è una costante e che ha portato il progetto ad essere una creatura che si muove su più livelli artistici, dato che oltre alla musica c’è anche video-arte (i video che si vedono durante i concerti, uno per ogni canzone, sono infatti realizzati interamente dal gruppo, in particolare dai due cantanti che sono appassionati di animazione a passo uno) e addirittura veri e propri film, per l’ultimo dei quali ho avuto il piacere di curare l’intera colonna sonora!
In un panorama odierno in cui il fenomeno del cosiddetto indie italiano è uno degli spettacoli più avvilenti e penosi degli ultimi 20 anni, fatto di gruppi con nomi tutti uguali, che suonano tutti uguali, e parlano tutti degli stessi argomenti triti e ritriti, una band come i Grimoon è una voce fuori dal coro pressochè unica!

Caspita, se mi trovi d’accordo su questo! Stiamo attraversando una fase veramente triste nell’ambito indie italiano (e mi sa anche a livello internazionale), caratterizzato da una banalità e una noia senza precedenti… E certamente altro progetto che ha saputo dimostrarsi originale e divertente è stato quello del Señor Tonto, per il quale hai realizzato un album e un singolo. Come è nato questo progetto?

Ah! Il Señor Tonto è senza dubbio la collaborazione più bella che mi sia mai capitata in questi anni! Fui contattato da Enrico Sist (per chi non lo sapesse, il Señor Tonto, ovvero il surreale alieno dal pianeta Manubrio che ogni tanto accompagnava i Tre Allegri Ragazzi Morti nei loro concerti con interventi e performance varie, è lui!), mio amico già da diversi anni, perché i T.A.R.M. in quel periodo avevano un progetto strampalato da realizzare, ovvero una specie di “best of” dei loro successi in versione elettronica/lounge. Avevano già provato con qualcun altro ma non aveva funzionato, ed Enrico pensò bene di proporre me, dato che ben conosceva la mia passione per synth vintage eccetera. Adesso non mi ricordo neanche più bene, ma mi pare che mi commissionarono un brano di prova, ed Enrico e Davide (Toffolo) vennero a casa mia a sentirlo. Davide impazzì letteralmente (il brano gli era decisamente piaciuto!) e in preda all’entusiasmo mi diede carta bianca dicendo “Fai tutto quello che ti passa per la testa! Mi fido!”. Io non ci pensai due volte! Avuta la scaletta dei brani da coverizzare, accesi tutti i miei vecchi dinosauri e cominciai le registrazioni! Per ogni brano adottai uno stile diverso: uno in versione elettro-bossa-nova, uno in versione psichedelico-ambient, uno in versione elettro-punk, uno in versione kraut-rock, uno in versione minimal-sperimentale e via dicendo! Non mi feci il minimo problema a prendere alla lettera le parole di Davide, e non pensai minimamente a porre alcun freno alla mia fantasia. Il tutto ovviamente registrato rigorosamente con strumenti veri, suonati dalle mie scheletriche manine dalla prima all’ultima nota senza uso di computer, sequencer o altre amenità! Il risultato è apputo il disco Switched On T.A.R.M., pubblicato da quella che poi è diventata una delle etichette indie più attive del panorama italiano, ovvero La Tempesta.
La collaborazione per il il singolo poi è stata qualcosa di ancora più divertente! Era il periodo pre-natalizio del 2004, ed Enrico aveva avuto l’idea di coverizzare il brano Hooray For Santy Claus, presente nel cult-movie Santa Claus Conquers the Martians del 1964. Stavolta alla registrazioni partecipò anche il Señor Tonto in persona (che in Switched On T.A.R.M. si era limitato ad essere alieno-immagine), contribuendo con jingle-bells, Grillo Parlante Clementoni e onde mentali, ma soprattutto portando con sé la vera star del progetto, ovvero la voce solista: M.A.T.T.I. [al secolo Sara Pavan, N.d.R.]… ossia, la ragazza più stonata che io abbia mai sentito in vita mia!!! Con la particolarità che però nessuno al mondo sa stonare bene come lei! Erano le stonature più artistiche ed entusiasmanti che avessi mai sentito! All’inizio ero rimasto interdetto, ma il Señor Tonto strizzando l’occhio mi disse “aspetta… fra un po’ capirai!” e in effetti dopo un paio di take ho capito… era perfetta per il progetto!!!

Passiamo ad altro: raccontaci un po' della tua attività di autore, hai collaborato anche con riviste e fanzine e poi abbiamo scritto assieme il libro Attacco Alieno! Con chi lavori ancora?

Non sono tantissime le collaborazioni in questo senso, e appartengono più che altro al passato, ma sicuramente sono state cose che mi hanno divertito molto. Quando posso parlare liberamente di argomenti che conosco e di cui mi piace parlare, mi si invita sempre a nozze!
Indubbiamente le collaborazioni più corpose (e quindi più gratificanti) sono state quelle che ho avuto con te, e quindi il libro da te citato e i vari articoli che ho scritto per la tua fanzine Abastor, in particolare quelli sulla musica elettronica.
Per il resto, ricordo vagamente di aver collaborato con Amaracord (la rivista “concorrente” di Nocturno, agli albori), con una rivista mi pare di Pordenone (Lo Zuccolo se non erro) per la quale avevo scritto un articolo sul Synthi AKS (uno dei miei synth), nonché un paio di volte con una rivista che usciva in edicola (Man-ga!) per la quale scrivevo articoli sul cinema di fantascienza giapponese degli anni 50/60.
Per il resto mi si può trovare spesso nei ringraziamenti di molti libri sul cinema (b-movies e film di genere), dato che anni fa (prima dell’avvento di internet) avevo un volume impressionante di scambi e compravendita di film, e ho fornito vagonate di b-movies a collezionisti sparsi in tutto il mondo!

Infatti tu sei anche un attento cinefilo, collezionista di cinema, non solamente di film in supporti digitali o analogici, ma anche di un sacco di locandine. Qual è il cinema che ti dà più emozioni? Quali i titoli e gli autori a cui sei più legato?

Guarda, più o meno posso fare un parallelo con l’attitudine che ho in campo musicale. Come con la musica, anche col cinema ho lo stesso tipo di approccio, ovvero mi piacciono tutte quelle pellicole strane, originali, incatalogabili, provocatorie, bizzarre, uniche… insomma, a me piacciono gli estremi!
Potrei farti miriadi di nomi e non sarebbe che la punta dell’iceberg! Del resto non saprei nemmeno quantificare quante migliaia e migliaia di film ho visto nella mia vita! Una cosa che invece non mi ha mai attirato sono i grandi film osannati da tutti, i “capolavori riconosciuti della settima arte”… ecco, quando vedo quelle definizioni, mi passa la voglia di vedere il film. Perché a me piace scavare, andare a cercare sotto, in zone inesplorate.
Il cinema indipendente in questo senso è forse il mio preferito, perché è dove puoi trovare chi davvero vuole dire qualcosa di personale. La più grossa tortura per me sarebbe legarmi ad una sedia e costringermi a vedere dall’inizio alla fine un film d’azione con Steven Seagal, con sparatorie, esplosioni ed effetti speciali… potrei morire di noia! Datemi un oscuro film cecoslovacco in cui per un’ora e mezza c’è un primo piano dei volti di un uomo e una donna che si guardano senza dire niente e lo trovo molto più interessante!
Il cinema vero poi è indipendente per attitudine, non c’entra il budget! Era indipendente tanto Jess Franco, che ha sempre lavorato con budget ridicoli, che Jodorowsky, che riusciva a farsi finanziare i film da John Lennon, così come Ingmar Bergman o Tarkovskj! Che tu abbia a disposizione 500 euro o 5 milioni di euro, è quello che vuoi dire che conta! Se quello che vuoi dire è interessante, passa attraverso lo schermo lo stesso!!!

Quello a cui accenni è un punto fermo che considero fondamentale per distinguere l’interesse, la passione, la conoscenza vera, dal semplice “consumismo”: la ricerca. Non importa il genere di cose a cui ti interessi, l’importante è che ci sia una ricerca alla base, ci sia la volontà di conoscere e di approfondire. Trovo insopportabile la superficialità con cui la maggior parte delle persone “consuma” prodotti culturali solo perché di moda o per dimostrare di essere intelligente… Ad esempio trovo che possa essere considerata cultura anche il mondo dei giocattoli. Tu infatti, come me, sei anche un accanito collezionista di giocattoli, di dischi e di film. Parliamo prima di tutto di giocattoli: che cosa ti appassiona e quali sono i “pezzi” di cui sei maggiormente orgoglioso?

Parto subito col dire che sono stato molto fortunato ad essere riuscito a conservare quasi tutti i giocattoli di quando ero bambino! Nel senso che, contrariamente alla maggior parte delle persone, che quando cresce butta via tutto (magari tenendosi solo quel paio di giocattoli ai quali era più affezionato), io non ho buttato quasi niente! Anzi! La maggior parte sono riuscito a conservarli addirittura nelle scatole originali (ero malato già all’epoca!). E comunque tutt’ora quando mi capita di trovare dei vecchi giocattoli che mi piacciono a dei prezzi decenti li compro senza pensarci due volte! Non ci posso fare niente, adoro i vecchi giocattoli!
Oltre ai super-classici come i Big Jim (senza dubbio il giocattolo con cui ho giocato di più in assoluto), o le macchinine della Match Box, avevo sicuramente un debole per robot e giocattoli a tema fantascientifico: veneravo la serie dei Micronauti (non solo a quelli magnetici tipo Baron Karza & Co., ma anche a quelli della serie più vecchia come il Biotron e il Giant Acroyear), e naturalmente tutti i robot delle serie tv giapponesi che in quegli anni stavano invadendo l’Italia (Goldrake, Gundam, Danguard, Daikengo, Zambot 3, Tekkaman). Andavo matto per la serie Galaxy della Atlantic (Zephton e Dynatlon i miei preferiti), o per la linea TH3, poco conosciuta ma responsabile di una manciata di giocattoli affascinanti e ben realizzati.
Poi naturalmente adoravo anche i vari mostriciattoli di gomma (ragni, serpenti, topi eccetera) che disseminavo ed appendevo qua e là come decorazioni nella mia cameretta… per non parlare di scheletri e teschi, la mia vera passione! In effetti, uno dei miei “giocattoli” preferiti è sempre stato un teschio (realistico, non stilizzato) a grandezza naturale, in terracotta, che i miei genitori mi regalarono durante una vacanza al mare. Ce l’ho ancora oggi di fianco al mio letto, sul comodino!
Per quanto riguarda i pezzi pregiati della collezione, ce ne sono alcuni come lo Zambot 3 Deluxe oppure per una versione particolare del Visiorama di Goldrake (che a quanto pare si riteneva non fosse mai stata messa in commercio e invece io ce l’avevo… pagata 15mila lire a un negozietto di cose di seconda mano negli anni 90) per i quali ho ricevuto in effetti offerte da far tremare le gambe, ma alla fine mi sono sempre rifiutato di venderli. Perché io non colleziono per profitto, ma solo per passione, oltre che per nostalgia.
Altro bel pezzo è il Diaclone, della serie dei Dianauti. Era in un certo senso il sogno proibito di ogni bambino, ma era molto delicato, e infatti più che giocarci me lo guardavo in estasi! Di recente mi è capitato di tirarlo fuori dagli scatoloni per fargli qualche foto, e devo dire che non è cambiato niente… mi affascina ora come mi affascinava 30 e passa anni fa!!!
Ho sempre adorato alla follia Pegas (il robot della serie di Tekkaman), e il mio della Nakajima resta uno dei pezzi ai quali sono più affezionato in assoluto!
Come anche Dracula e Frankenstein della serie Mad Monster della Mego, che sogno di trovare un giorno originali nelle loro scatole degli anni 70. I miei me li regalarono i miei genitori all’epoca e ci ho stra-giocato!
Un giocattolo strepitoso che avevo all’epoca e che purtroppo oggi non ho più era il Mister Muscolo della Harbert (la prima versione, quella degli anni 70)… che in realtà avevo conservato intatto fino agli anni 90 finché un mio amico decise un bel giorno di fare un po’ lo scemo ed esagerando a tirarlo me lo spaccò davanti agli occhi e mi toccò buttarlo via dato che la resina che ne riempiva il corpo era tutta colata all’esterno! Non l’ho ancora perdonato, quel mio amico, in effetti…. era uno dei miei giocattoli preferiti il Mister Muscolo! Se ci penso mi ci arrabbio ancora!!! Anzi, mi sta venendo su il nervoso, meglio che cambiamo argomento!

Quali sono i tuoi film preferiti e perché?

Parto andando per registi.
Nel mio cuore c’è un posto speciale per Jess Franco, perché per me è l’incarnazione stessa di cinema indipendente! Quando l’ho scoperto è stato come entrare in un universo a parte, dal quale non sono più voluto uscire! Per parlarne in modo esauriente bisognerebbe scrivere un libro (al di là del fatto che ha girato quasi 200 film, la sua filmografia è anche particolarmente controversa e complessa), per cui mi limito a citare alcuni tra i titoli che amo di più: Venus In Furs, Las Vampiras, Succubus, Una Vergine Tra I Morti Viventi, La Comtesse Perverse, Agente Speciale LK: Operazione Re Mida, 99 Donne, Le Giornate Intime Di Una Giovane Donna.
Un altro dei miei registi preferiti è Alejandro Jodorowsky, con El Topo e ancor più con La Montagna Sacra, due colonne portanti del cinema surrealista visionario più sconvolgente degli anni 70.
Adoro le primissime cose di David Lynch come Eraserhead, ma ancor di più The Alphabet e The Grandmother, per me i suoi due capolavori assoluti. Un condensato al vetriolo di angoscia, incubi e di tutta la sua poetica particolarissima e disturbante! Twin Peaks a confronto è roba da poppanti!
Adoro il cinema giapponese, dagli anni 60 e 70 (Koji Wakamatsu, Yasuzo Masumura, Hiroshi Teshigahara, Kaneto Shindo, Susumu Hani, Shuji Terayama) ai registi contemporanei (Shinya Tsukamoto e Takashi Miike su tutti), e naturalmente la fantascienza giapponese anni 50/60, che non vuol dire solo kaiju-eiga (ovvero i film di mostri tipo Godzilla e Gamera) ma anche veri e propri cult del cinema trash (la fantascienza giapponese d’annata è spassosissima), nonché una manciata di autentici capolavori del calibro di Matango (di Ishiro Honda) o Distruggete DC59 - Da Base Spaziale ad Hong Kong (di Hajime Sato).
E ovviamente se si parla di Giappone non si può non parlare di cartoni giapponesi. Io sono della generazione Goldrake, e non serve aggiungere altro!
Saltando di palo in frasca adoro il brasiliano Josè Mojica Marins, un caso pressoché unico al mondo di regista che si fonde con il personaggio da lui creato, ovvero Zè Do Caixao (noto anche come Coffin Joe), in un universo horror surreale da fumetto nero… i suoi film (dai programmatici titoli come A Mezzanotte Prenderò La Tua Anima oppure Questa Notte Possiederò Il Tuo Cadavere) sono dei deliri psico-esistenziali che prendono luogo in gironi danteschi popolati da diavoli, ragni, serpenti, streghe, mostri… i livelli assolutamente esagerati di violenza gratuita, nudità e insanità mentale che pervadono ogni sua pellicola sono tanto più incredibili pensando agli anni in cui sono stati realizzati (la maggior parte negli anni 60)… per l’epoca erano qualcosa che era quasi di un altro pianeta!
Devo specificare a questo punto che sono un grandissimo fan del cinema horror fin da piccolo… da sempre ho avuto un’innata fascinazione per il macabro… Dal Nosferatu di Murnau a Nekromantik di Jorg Buttgereit, passando per i gotici anni 60, i film della Hammer, lo splatter anni 80 (mentre non amo per niente gli horror di oggi)…e se quello per me è stato il punto di partenza, i miei gusti in fatto di cinema non potevano che evolversi in direzioni da freak!
Ecco, altro gran bel film Freaks di Todd Browning! E parlando di freak in senso lato, non posso che adorare tutto il cinema di Werner Herzog, regista di una visionarietà dai toni lirici e sempre a raccontare storie di personaggi borderline, quando non del tutto fuori dai “border”!
Ma ho guardato anche tantissimo cinema di genere, dalla fantascienza classica degli anni 50/60/70 ai gialli e thriller anni 60/70, l’espressionismo tedesco degli anni 20, dadaismo e surrealismo, cinema underground e sperimentale, exploitation, sexploitation, w.i.p., senza dimenticare la golden age del porno degli anni 70, quando questo tipo di cinema ha raggiunto il suo apice di autorialità grazie al talento di registi come Gerard Damiano o Radley Meztger, quest’ultimo in realtà autore a tutto tondo che ci ha regalato dei capolavori anche sul fronte del cinema normale (normale si fa per dire) come Camille 2000 e Esotika Erotika Psicotika (The Lickerish Quartet), due tra i miei film preferiti!
E ancora, il cosiddetto Cinema Of Transgression della New York primi anni 80: Richard Kern, Nick Zedd, Casandra Stark, Lydia Lunch…cinema che mescolava punk, wave, sesso & e violenza, denuncia sociale e a volte autentico delirio nonsense.
In Europa risultati simili (cinematograficamente parlando, dato che mancava in realtà tutto il sottostrato subculturale newyorchese) li aveva raggiunti il regista austriaco Carl Andersen con I Was A Teenage Zabbadoing e soprattutto Mondo Weirdo, uno dei miei film preferiti in assoluto, un pazzesco e davvero incredibile incubo sperimentale espressionista grottesco onirico orrorifico, con un’abbondante spruzzata di porno deviante (nel 1989 includere sequenze porno in film normali non era ancora chic come oggi!), con una colonna sonora wave/sperimentale (ad opera dei Modell D’Oo) che da sola vale un premio oscar! Si è trattato di uno dei film che mi hanno più colpito in tutta la mia vita. Si tratta naturalmente di cinema completamente malato e folle! La prima volta che lo vidi rimasi incollato allo schermo per tutto il tempo, non riuscivo a credere a quello che vedevo. Per mesi andai avanti a sognarmelo di notte. Mi aveva letteralmente stregato! Un effetto così potente me lo avevano fatto ad esempio Tetsuo di Tsukamoto, i già citati The Grandmother di Lynch e La Montagna Sacra di Jodorowsky, oppure L’Uomo Che Fuggì Dal Futuro (THX1138) di George Lucas (l’unico vero bel film che ha fatto)! Opere diversissime tra loro ma tutte di una potenza fuori dal comune, in grado di penetrarti dentro e, come mi piace sempre dire quando c’è qualcosa che ti piace davvero, di entrare a far parte del tuo DNA!

Quali sono i dischi a cui tieni di più?

Beh, sicuramente tutti i dischi di musica elettronica e sperimentale degli anni 60 sono tra i miei cimeli più preziosi. A partire appunto dal famigerato Le voyage di Pierre Henry in poi… la serie della Philips “Prospective 21° Siecle” in particolare è qualcosa che toglie il fiato, con quelle futuristiche copertine argentate con inchiostri polarizzati che cambiavano a seconda della luce… il box Electronic Panorama ad esempio è uno dei dischi più belli che siano mai stati prodotti, in quest’ambito! Ma in generale tutti i dischi di quel periodo, a parte la musica in sé, avevano delle copertine fantastiche, quasi sempre si trattava di opere astrattiste (e a me l’astrattismo è sempre piaciuto moltissimo), come la serie “Electronic Music” della Turnabout Vox, giusto per fare un altro esempio.
In generale, sono legatissimo a tutti i miei LP, nel senso che adoro proprio il formato LP, il vinile. Non solo (come giustamente dicevi prima anche tu) per la qualità oggettivamente superiore a qualsiasi CD. Il vinile per me coinvolge quasi tutti i sensi… oltre all’udito, c’è il tatto, perché maneggiare un 33 giri è un’esperienza totalmente diversa dal prendere un CD e infilarlo in un lettore: il 33 giri lo tiri fuori dalla sua copertina, poi lo togli dalla sleeve, sentendo nel farlo le piccole scariche elettrostatiche che a volte si accumulano, lo metti sul piatto, lo fai andare a vuoto pulendolo dalla polvere con l’apposita spazzola in fibra di carbonio, fai dolcemente scendere la puntina, ascolti con silenzio mistico quei primi secondi di fruscio e finalmente quando comincia il primo brano ti puoi sedere e gustarti il disco. E mentre lo fai hai in mano quelle stupende enormi copertine di cui scrutare e gustare ogni millimetro, aspetto che raggiunge l’apoteosi con le copertine gatefold dove lo spazio è addirittura raddoppiato e ti permette letteralmente di tuffarti con la faccia dentro l’artwork del disco. Quindi, udito, tatto, vista. Ci aggiungo anche l’olfatto. Magari chi compra solo dischi nuovi non potrà capire del tutto, ma per chi compra dischi usati, un grosso ruolo lo gioca anche l’odore di un disco. Quel meraviglioso odore di vecchio, a volte perfino di muffa… come l’odore in una libreria di libri usati o antichi… io quando ho per le mani un disco con quell’odore vado in estasi! Non ho mai trovato un cd che avesse quell’odore! Mai!
Per tutti questi motivi il cd non potrà mai dare le stesse sensazioni del vinile, ne ha snaturato il rituale, limitato le potenzialità espressive dal punto di vista grafico e appiattito le caratteristiche accessorie. E’ sicuramente un supporto veloce, comodo, e più capiente, ma ha perso totalmente la magia e l’aura poetica.
È stato in un certo senso il primo passo di un triste livellamento verso il basso e verso l’annullamento radicale del supporto fisico che ha portato a quello che oggi è il download e la fruizione digitale della musica, dove ormai non ci sono neanche più i cd (né tantomeno le copertine) ma solo dei file immateriali senza nient’altro dietro… fattore che ha determinato un altro preoccupante fenomeno, quello della bulimia da download! Gente che si riempie terabyte di hard-disk con dischi che non ascolterà nemmeno mai!
Ma torniamo ai miei dischi - veri! - e cambiamo formato. Non amo solo i 33 giri, ma anche i 45! In particolare sono affezionatissimo a tutti i miei 45 giri con le sigle tv dei cartoni animati giapponesi. Dalle sigle dei Super Robots/Rocking Horse di Douglas Meakin ai grandissimi Fratelli Balestra, passando per gli immensi Oliver Onions, e naturalmente Vince Tempera, Albertelli, Mariano Detto e via dicendo! Era un’epoca magica in cui le sigle tv non erano più realizzate, come in passato, nell’ottica stantia che vedeva i bambini come un branco di decerebrati da imboccare con motivetti semplici e stupidi alla Zecchino D’Oro (ho sempre odiato lo Zecchino D’Oro… fin da piccolissimo!). Le sigle che venivano realizzate in quegli anni, mi si perdoni l’espressione, avevano le palle! Non erano canzoncine, erano dei gran pezzi, scritti da musicisti con la M maiuscola! Avevano un altro respiro, un’altra attitudine. Era qualcosa di completamente nuovo che stava nascendo, e di cui la mia generazione è stata fortunata testimone. Niente potrà mai sostituire quel momento in cui ti sintonizzavi davanti alla tv per vedere il tuo cartone preferito, e quando partiva la sigla era come entrare in un altro universo! E secondo me non avrebbe fatto lo stesso effetto con una sigletta del cavolo! La bellezza oggettiva di quelle sigle, la loro indubbia levatura artistica ha aiutato il fenomeno a raggiungere l’importanza che ha in effetti conquistato nell’immaginario collettivo di quegli anni.
È stato per me straziante dover assistere in tempo reale alla successiva imposizione mediatica di Cristina D’Avena, che ha progressivamente raso al suolo tutto e restaurato l’assioma bambibi=cretini! Per questa ragione non potrò che odiarla finchè campo!

Quali sono i tuoi prossimi progetti?

Mah… il periodo è un po’ avverso in generale, in più mettici una mia certa tendenza alla pigrizia in mancanza di stimoli esterni…
Comunque in realtà di progetti ne ho… il principale sarebbe riprendere il discorso interrotto tanti anni fa con quello che era stato il mio ultimo lavoro degli anni 90 (Antimateria)… è un discorso che avevo parzialmente ripreso in un certo senso con Kanashii: unire elettronica minimale e malinconia è qualcosa che mi ha sempre dato grossa soddisfazione, e in effetti da diverso tempo sento il bisogno di tornare su quei territori, dopo aver impegnato gli ultimi anni in dischi molto cerebrali in cui ho volutamente bandito ogni ricorso alla melodia.
Parallelamente sento il bisogno sempre più impellente di dare vita ad un progetto in cui dar sfogo al mio lato più musicalmente violento… non bisogna scordarsi che io sono nato come chitarrista e in questo campo ho sempre avuto gusti molto estremi, sia come attitudine che come suono… anche senza un gruppo, io ho continuato lo stesso la mia ricerca e mi piacerebbe riuscire prima o poi a dare una forma concreta a delle idee che mi girano in testa da un sacco di tempo…
L’anno scorso poi ho avuto una lunga parentesi di infatuazione potentissima per un certo tipo di musica tibetana rituale, che ho ri-scoperto dopo tanti anni ed approfondito molto, andando anche a cercare diversi dei tipici strumenti con i quali è realizzata. Mescolare questi strumenti tradizionali a quelli che per me sono i miei, di strumenti tradizionali, potrebbe essere molto interessante…
Poi in realtà ho anche dei progetti tra l’assurdo e il demenziale, tipo fare un gruppo che fa cover metal in versione liscio o cose del genere… me lo immagino in realtà molto seriamente, alle sagre, con i vecchietti che ballano, ignari che intanto con fisarmonica, clarinetto e compagnia bella stiamo facendo Angel Of Death o Raining Blood degli Slayer… del resto, come ha ben spiegato Dave Lombardo in una delle sue spassosissime clinic, il pattern principe di tutte le sue ritmiche deriva dalla polka!

Dall'alto al basso: - Minimoog (1978) - Mellotron (1973) - testata da basso Gallien Krueger 800RB (a sinistra) (1991) - combo da chitarra Music Man Sixty-Five 210 (a destra) (1976)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
testata Orange GRO100 (1970) - cassa Orange 4x12 (1976)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Steiner-Parker Synthacon (1975) - Roland SH-5 (1976)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Gibson Les Paul Custom (1976)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Dall'alto in basso: - ARP Odyssey mk I (1973) - Yamaha CS15 (1978) - Solina Strings Ensemble (metà anni 70 più o meno) - Hohner Clavinet D6 (prima metà anni 70)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Dall'alto in basso: - Roland Vocoder VP330 (1979) - Roland Juno-60 (1983) - Elka Synthex (1981)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Moog Sonic Six (1974)
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Capitan Harlock e Yuki Key
Fotografia di Fabio Casagrande Napolin
Erik Ursich con la maschera "Vacca Stracca"