Dopo molti anni di conoscenza epistolare e poi elettronica, il 21 novembre 2013, ho approfittato della venuta in quel di Genova di F.C.N. per conoscerlo di persona e andare a mangiare assieme una bella farinata in un locale tipico genovese nei vicoli!
Durante la serata è nata l’idea di questa intervista che vuole ripercorre le varie attività di F.C.N.
Fabrizio: Si può dire che il tuo progetto underground più conosciuto sia stato Abastor? In che anno hai iniziato e cosa ti ha spinto a creare una fanzine?
F.C.N.: Abastor è nato nel 1994, ospitando temi completamente diversi rispetto a quelli che lo avrebbero caratterizzato in seguito. Nella seconda metà degli anni ottanta ho avuto la mia svolta alternativa, e mentre altri magari diventavano dj, musicisti o semplicemente novelli Tony Manero dark, star dei dancefloor alternativi, il mio carattere timido e introverso e la mia inguaribile grafomania, mi portarono invece a far nascere una dopo l'altra una serie di fanzine improntate un po' all'underground e un po' più al demenziale. Ecco così nascere prima La Mappazza, poi Il Cirporizio, F.R.O.G. e non ricordo più cos'altro.
Nel 1993 avevo chiuso anche l'ultimo esperimento di fanzine per dedicarmi ad altro, soprattutto musica, attraverso il mio progetto In Vitro Test, e mail-art. Fu in questo contesto che nel 1994 venne alla luce Abastor: una newsletter in formato A3 su un solo foglio fronte/retro, che raccoglieva mail-art e poesia e che veniva distribuita per posta. Non volevo più fare fanzine, ma al tempo stesso avevo appena creato quella che sarebbe destinata a diventare una fanzine molto longeva.
Da quel momento la fanzine prese a mutare forma, contenuti e aspetto, trasformandosi pian piano fino a diventare un vero e proprio magazine autoprodotto di approfondimento su tutto ciò che riguarda la cultura pop, meglio se un po' bizzarra, che va dagli anni cinquanta agli anni ottanta dello scorso secolo: dischi, riviste, libri, giocattoli, cibi, bevande, oggetti, personaggi, film, telefilm, sceneggiati televisivi... unico filo conduttore il profondo amore nei confronti di quei fenomeni legati a un recente passato. Una sorta di contenitore per gli scavi archeologici nella cultura popolare del secondo dopoguerra, in cui confluirono autori di tutti i generi, come il musicista elettronico Erik Ursich, lo scrittore Angelo Orlando Meloni, l’autore televisivo Daniele Ongaro, lo scrittore pordenonese Enrico Sist, Vanessa Venerdì, che scriverà in seguito su riviste goth/industrial, il musicista neo-folk Marco “Wertham” Deplano, il musicista industrial D.B.P.I.T., il grafico e blogger Roberto Pasini, il mailartista Antonio Amato e tanti altri provenienti dalle più disparate formazioni culturali.
Che cosa mi ha spinto a trasformare una newsletter mail-art in una corposa fanzine dedicata alla cultura retropop? La proverbiale conversione sulla via di Damasco. A metà anni novanta mi ero già stancato di tutto l’ambiente alternativo, dei gruppetti emergenti che diffondevano demo manieristi, della stampa alternativa che lodava anche il prodotto più scadente (ne ho la prova diretta: i demo prodotti da La Casa Rosa Confetto e In Vitro Test erano inascoltabili, eravamo veramente incapaci di suonare, non so con che coraggio nessuno li abbia mai stroncati)… volevo fare qualcosa di diverso. Mi venne regalato allora il libro Star Trash di Luca Scarlini e Fulvio Paloscia, edito da Castelvecchi. Fu un’illuminazione. Da allora mi tuffai in quella cultura, acquistai molti altri libri e decisi di convertire la fanzine a quel nuovo credo. L’idea era quella di riscattare tutti quei prodotti pop, soprattutto degli anni settanta, che, per l’underground di allora, equivalevano a spazzatura, ma che tale non era, se non a una superficiale e presuntuosa prima occhiata. C’era molta voglia di provocare. E provocativo era lo stile della fanzine, che al contempo criticava senza peli sulla lingua i prodotti comunemente considerati dei capolavori dalla comunità underground, le pessime opere ingiustificatamente osannate da fanzine e radio libere. Le sottoculture erano e sono tutt’ora caratterizzate da un soffocante conformismo, da una opprimente ortodossia, che porta chi vi appartiene a imporsi i gusti della “massa”, rigettando i propri, quando non conformi. Abastor si voleva scagliare contro tutto questo e ci riuscì, attirandosi le antipatie di molte persone e molti gruppi.
Ricordo ad esempio la querelle sorta in occasione di un articolo particolarmente “velenoso” di Vanessa Venerdì (curava su Abastor una rubrica dal programmatico titolo “Disinfestazioni”!) sul libretto Sanguinarie Cenerentole prodotto dal G.H.O.S.T. Club di Torino, che scatenò l’ira funesta delle soprannominate “cenerentole” della letteratura horror. Continuo a considerare il testo davvero ben riuscito, Vanessa Venerdì aveva uno stile al vetriolo di un’eleganza unica. Allora molti pensarono che Vanessa Venerdì fosse un mio pseudonimo, visto che ne usavo almeno una mezza dozzina, credo che la carriera di Vanessa successiva alla fanzine (ha infatti collaborato successivamente con il portale Mondo Culto e con le riviste :Ritual: e Ascension Magazine) abbia dimostrato il contrario, non coincidendo che minimamente i nostri interessi e gusti musicali, ma soprattutto essendo il suo stile di gran lunga superiore al mio.
Negli anni duemila la fanzine ha abbandonato la via della provocazione e della “cultura trash”, per imboccare quella dell’abastorianità: abbiamo semplicemente smesso di parlare (male) di tutto quello che non ci piaceva, concentrandoci solamente sui prodotti abastoriani degni di interesse. Abbiamo perciò smesso di trattare del materiale più greve, quello tanto amato dai cultori del trash, ma ben poco abastoriano (ad esempio certe commediacce degli anni ottanta), e di quel mondo televisivo popolato da cartomanti, teleimbonitori e vippame da salotto televisivo. Allora Abastor è diventato il vero e più puro Abastor, la oddzine démodé per signorinette snob, come recitava uno dei sottotitoli che mutavano ad ogni uscita.
Ho chiuso la fanzine nel 2010, dopo 16 anni di attività, e chiuso anche tutti i progetti legati ad Abastor, è rimasto in piedi solamente il Centro Studi Abastoriani – Archivio Abastor, che raccoglie, cataloga e studia tutti gli oggetti di cui Abastor Oddzine si occupava e che è attualmente rappresentato dal blog omonimo. Comunque non escludo di tornare in futuro a sfornare un numero speciale “una tantum” magari in pdf distribuito in rete…
Fabrizio: Spiega a chi non ha mai letto nessun numero della fanzine, di cosa si occupava e cos’è la “cultura abastoriana”.
F.C.N.: Nella sua “terza fase” (la prima era quella mail-art, la seconda quella sostituzionista) Abastor era una trashzine che si impegnava, appunto, a diffondere il verbo del “trash”. Successivamente, visto l’abuso del termine e visti i progressivi slittamenti di significato che lo portarono a definire tutt’altra cosa, venendo utilizzato non solo in modo improprio, ma, molto spesso, cialtrone, Abastor cominciò a prendere le distanze da quel fenomeno e inventarsi una sua propria definizione, un suo proprio modo di affrontare gli argomenti trattati. Inventai così la parola oddzine, contrazione di odd (“strambo”, “mancino”) e fanzine, a cui venne in seguito accoppiato il francesismo démodé, perché si occupava solamente di fenomeni fuori moda, termine comunque meno “stronzo” di vintage, al quale sono diventato allergico perché viene utilizzato con l’intento di voler nobilitare l’oggetto che definisce anche quando si tratta di ciarpame. Per definire quindi tutto ciò che trattavamo iniziammo ad usare il termine ricorsivo abastoriano: che cos’è Abastor? Una fanzine che si occupa di fenomeni abastoriani. Che cosa vuol dire abastoriano? Tutto ciò di cui si occupa Abastor.
In effetti non è mai stato semplice definire l’ambito di interesse di Abastor, perché esso non coinvolge solamente un determinato periodo epocale o un determinato gruppo di oggetti, un genere, un filone, ma una moltitudine di oggetti, opere, personaggi, fenomeni, che solo chi è dotato del raffinato sesto senso abastoriano è in grado di percepire come affascinanti.
Generalmente posso dire che la “cultura abastoriana” comprende un certo tipo di musica “facile” (easy listening, cheesy music, schlager, europop, sigle televisive, colonne sonore, documenti sonori) ma anche bizzarra; un certo cinema di genere (soprattutto italiano) ben fatto; una serie di programmi televisivi databili tra anni cinquanta e settanta, in grado di saper coinvolgere e intrattenere il pubblico, senza essere mai stupidi né forzatamente colti; lo sono decisamente tutti quei giocattoli affascinanti e “moderni” usciti tra anni sessanta e settanta, nel momento di massimo splendore della plastica (con la crisi petrolifera, prima, e l’avvento dei videogiochi, poi, l’industria del giocattolo entrò crisi tra la fine degli anni settanta e gli inizi degli ottanta, non producendo più giocattoli interessanti); ancora la moderna stereoscopia a partire dalla metà dello scorso secolo e prima dell’avvento del digitale; quella estetica retro-futurista che puntava ad una sobria, essenziale, modernità fatta di stile ed eleganza; senza ombra di dubbio tutta la pubblicità, stampata e filmata, dell’epoca di Carosello (ma anche i suoi paralleli stranieri)…
Sono state formulate molte definizioni atte a spiegare che cosa sia lo spirito abastoriano, ma tra le tante l’unica che mi piace davvero e continuo ad usare è quella che definisce che cosa Abastor non è: Abastor non è né trash né chic, Abastor è Abastor.
Fabrizio: Durante gli anni di vita di Abastor hai fatto uscire molti lavori ad esso legati. Ad esempio i volumetti a tema. Mi vengono in mente "Cappuccetto e le altre ragazze del mucchio", "Il legno, il mio amico", ecc.
F.C.N.: Oddio… sì, erano i cosiddetti “booklet” autoprodotti. Diciamo che è lo stesso principio che sovrintende ai demo, applicato alla carta stampata: se non c’è nessun editore interessato a pubblicare il tuo libro, te lo stampi da solo! Vabbè, erano proprio libretti di poche pagine e neanche mi passava per la mente di proporre quel materiale a un editore. Semplicemente era divertente farsi dei libretti dove potevi scrivere quel che volevi senza doverne rendere conto a nessuno. Massima libertà creativa ed espressiva.
Non che abbia qualcosa contro gli editori, sia chiaro, solo che quello era materiale impubblicabile! Anche se poi alcuni nomi passati per i booklet Apathya (la label usata per quelle uscite estemporanee), finirono per essere pubblicati da case editrici o per lavorare come autori… mi vengono in mente ad esempio Emanuela Zini o Andrea Valentini. Gente davvero in gamba.
Cappuccetto e le altre ragazze del mucchio e Il legno, il mio amico, erano delle “compilation” di racconti molto brevi, composti da vari autori attorno ad un tema: la fiaba di Cappuccetto Rosso rivisitata nel primo caso, il legno nel secondo caso.
Fabrizio: Mi dicevi che scrivi soggetti per corti? Cosa è già uscito e cosa hai in cantiere?
Sì, mi riaggancio alla domanda precedente: alcuni racconti, alcune idee nate su quei libretti, anni dopo, hanno molto colpito il filmaker Daniel Savonier, alias Daniele “Askarot” Saponiero, che ne ha tratto alcuni cortometraggi.
Per la verità la prima collaborazione con Daniele non era ispirata a un mio racconto, ma fu un’idea nata (non ricordo come) probabilmente davanti ad una birra. Si tratta di Envolée Pindarique, che mi coinvolse anche come aiuto regista, fotografo e musicista per la colonna sonora (che composi e suonai assieme a David degli Inner Glory).
In seguito Daniele ha realizzato anche altri corti ispirati a miei racconti. Ad esempio un corto tratto dal mio racconto Trasloco, che per la verità non so ancora come ha deciso di intitolare. Altri sono in pre-produzione o produzione in questi mesi.
Sono tutti incentrati su tematiche psicologiche calate in situazioni oniriche, surreali o assurde, che vogliono rappresentare disturbi sociali e personali, nel rapportarsi con sé stessi e con il mondo esterno.
Fabrizio: Se non ricordo male molti anni fa avevi fatto uscire qualcosa tipo fotoromanzo? :-)
F.C.N.: Sì… stai parlando di Photofobia. Era un progetto di fanzine di soli fotoromanzi. Quest’idea nacque nelle mie prime fanzine, La Mappazza e Il Cirporizio, che ospitarono alcuni fotoromanzi demenziali che realizzai con gli amici coinvolti nel “Movimento Rancido”. In seguito misi assieme questi fotoromanzi e ne realizzai altri, e stampai la fanzine Photofobia, che poi in realtà divenne un booklet a uscita unica.
Anni dopo ho ripreso in mano il mezzo del fotoromanzo e ne ho prodotto sporadicamente qualche altro. Uno, Casa Big Jim, lo realizzai con dei Big Jim (il protagonista era Big Jim Olimpionico, il suo partner, Professor Obb versione Condor Force), ed era una sorta di versione gay di Casa Vianello. Poi ne ho realizzati altri, che abbiamo fatto circolare solo tra amici, per divertirci. Ce n’è ancora uno di inedito che non sono mai riuscito a terminare, forse perché il progetto era troppo ambizioso… praticamente ne volevo fare una sorta di “fotoromanzo in tv”, sulla traccia dei “fumetti in tv” di Supergulp! Mi rendo conto di stare parlando di qualcosa che solo chi ha più di quarant’anni può ricordare…
Fabrizio: Generalmente la passione per la scrittura è legata alla passione per la lettura. Quali sono i tuoi autori preferiti?
F.C.N.: No, veramente a me non è mai piaciuto leggere. Da bimbo, a scuola, mi costringevano a farlo: alle medie c’era una sorta di prestito librario obbligatorio, non sono mai riuscito ad andare oltre le prime pagine di tutti i libri che ho preso, dopodiché abbandonavo il volume! Anche perché lo si poteva tenere un solo mese e per me un mese per finire un libro era troppo poco (e lo è tutt’ora). Quando lo si restituiva bisognava scrivere un riassunto, che mi inventavo di sana pianta leggendo la IV di copertina.
Così ho imparato a odiare la letteratura (e a scrivere in modo creativo!) e nutro tutt'ora una certa repulsione nei suoi confronti. Solo verso la fine dell’adolescenza ho cominciato a leggere qualche libro (e soprattutto ad arrivare alla fine) ed apprezzare la letteratura erotica (quella seria, Bataille, Mandiargues, Robbe-Grillet, non le cavolate tipo Melissa P. o Cinquanta sfumature di grigio). Forse il primo libro che ho portato a termine è stato Fantozzi di Paolo Villaggio: un'illuminazione.
Poi mi sono dedicato soprattutto (anzi, quasi esclusivamente) alla saggistica, in particolare storia, cinema, musica, e naturalmente libri che trattassero delle mie passioni come vecchi giocattoli e stereoscopia. A partire dagli anni novanta poi si sono affacciati diversi autori che hanno saputo trattare argomenti leggeri in modo serio (solo le cose poco serie meritano di essere trattate in modo serio) in testi a cavallo tra il saggio e il romanzo, riuscendo a tracciare, tra le righe, un ritratto efficace della nostra società, come nel caso di Tommaso Labranca. E poi ci sono molti di scrittori grandi e piccoli che hanno affrontato vari temi pop o “apocalittici”. L’ultimo libro che ho letto (cioè che ho finito) è stata l’autobiografia di Brigitte Bardot e ora sto affrontando la biografia di Serge Gainsbourg scritta dalla giornalista inglese Sylvie Simmons. Insomma, non mi interessa e non mi è mai interessata la cultura “alta”, sono anzi dell'idea che si possa apprendere di più da Cronaca Vera che da Dante o Manzoni.
Scrivo, ho scritto, principalmente perché sono un grafomane, perché durante l'adolescenza, in particolare, ma anche in seguito, mi sono sempre espresso meglio con lo scritto che con la voce, e scrivere è sempre servito da “filtro” per entrare in contatto con gli altri. Ho sempre trovato lo scrivere più ordinato e preciso, un mezzo che permette di mettere in ordine i pensieri e di organizzare in modo più chiaro le informazioni che si vogliono comunicare. Nel parlare mi ritrovo spesso e volentieri “sconfitto”, perché molte persone tendono a soverchiarti, ad alzare la voce, a impedirti di esprimerti con calma e ordine. Nello scrivere, invece, mi ritrovo molto più a mio agio e riesco a far filare ragionamenti, a dimostrare i concetti attraverso un ragionamento logico.
Ma il termine “scrittore”, mi ha sempre dato i brividi, anche perché non è la mia professione, e mi riempie la bocca di un brutto sapore di spocchiosa immodestia e autoreferenza, mi vengono i brividi a sentirmi definire così. Non lo sono affatto, posso piuttosto definirmi un ricercatore, un “archeologo della modernità” e soprattutto un grafomane.
Fabrizio: Nel tuo cosiddetto “Archivio Abastor”, cioè nelle cose che hai collezionato nel corso degli anni, quali sono gli oggetti di cui sei più “fiero” e soddisfatto di possedere?
F.C.N.: Beh, sicuramente i giocattoli degli anni settanta, e tra questi soprattutto Big Jim! Adoro quel giocattolo! È la cosa più bella prodotta negli anni settanta, espressione dello spirito dei tempi, anzi, il giocattolo più bello in assoluto! Di Big Jim ne ho tra i trenta e i quaranta (non li ho mai contati), ma io non sono che un modestissimo piccolo appassionato, conosco gente che ha stanze con intere pareti ricoperte di questa action figure. Il mio interesse va dall’inizio della produzione (1972) fino ai primi anni ottanta (la serie “Spy”), l’ultima fase con la serie fantascientifica Global Command vs. Condor Force, non mi è mai piaciuta. E tra questi mi piacciono soprattutto i primi Big Jim con le mani dritte, le serie All Stars e P.A.C.K., e poi naturalmente anche la serie West (da noi uscita come “Gli amici del West di Big Jim”, ma in origine prodotta per il Nord Europa come serie indipendente legata ai personaggi del romanziere tedesco Karl May: Old Shatterhan, Winnetou, Ntscho-Tschi, ecc.), la serie dei Pirati, la serie Spy, 004…
Eppoi i Mego, che nessuno sembra mai sapere che cosa siano, ma molti se li ricordano semplicemente come i supereroi della Harbert, perché in Italia vennero distribuiti da questa ditta. Negli Stati Uniti e nel mondo del giocattolo sono tra le cose più collezionate, ricercate, riprodotte e imitate, probabilmente anche perché legate al mondo del fumetto D.C. e Marvel, e di conseguenza abbastanza costose. Motivo per il quale ne ho pochissimi, giusto Batman, Robin, Superman, Wonder Woman, Kirk e Spock della serie classica di Star Trek, e il favoloso quarto Dottore della serie Doctor Who interpretato da Tom Baker, cioè il Dottore per antonomasia… Ancora sono fiero delle miei Rock Flowers Mattel, le bamboline hippy con disco microsolco allegato; di una Lisa Jean della Furga, “una bambola di quindici anni”; di alcune Leggy Hasbro, action doll del 1972 con gambe sproporzionatamente lunghe; di una nutrita collezione di View-Master, i visori 3D con dischetti rotondi su cui sono montate sette coppie di diapositive stereoscopiche; de “Il Mimastorie” della linea See’n’Say Mattel; de “Il Grillo Parlante” Clementoni; di un paio di mangiadischi; del registratore Geloso G 257 “Gelosino”; di una bella collezione di bicchierini da liquore con marchi in voga tra gli anni cinquanta e settanta; di un bel po’ di vecchie riviste, compresi numeri di Grazia, La cucina italiana, Epoca, ecc. degli anni cinquanta e sessanta, di varie riviste sexy anni sessanta come Playmen, Esquire, King, ecc. E di molti Topolino degli anni settanta ricchi di strepitose pubblicità di giocattoli.
Insomma, l’Archivio Abastor raccoglie materiale da studiare, ma anche con cui giocare e divertirsi!
Fabrizio: Parlami un po’ del tuo progetto musicale In Vitro Test.
F.C.N.: Beh, è un vecchio progetto musicale, sorto come sideproject solista nei primi anni novanta, al tempo de La Casa Rosa Confetto (sembra incredibile, ma ho trovato in rete qualcuno che se ne ricorda e che li ascolta ancora! E ci vuol coraggio!). Verso il 1992 ho dato vita a questo progetto “one man band” di genere industrial-sperimentale con il quale ho prodotto una manciata di demo (di cui uno probabilmente perduto, perché ne avevo fatte un paio di copie soltanto, in occasione di una mostra di un mio amico artista, che l’ha utilizzato come colonna sonora per una sua installazione, se non ricordo male).
Il nome deriva dal brano omonimo degli Stereo Taxic Device, contenuto nel loro album Stereo Taxic Device del 1990. Formazione che ha sfornato un paio di album in quegli anni di genere EBM, quindi parecchio distante dal genere poi prodotto dal mio progetto, che risentiva piuttosto delle influenze di artisti come Einstürzende Neubauten, Diamanda Galás, Death In June e soprattutto Coil. Infatti non mi piaceva particolarmente il disco (che poi ho rivenduto), né il genere, ma più il significato di “sperimentazione in laboratorio”. In Vitro Test era infatti musica sperimentale condotta in un laboratorio allestito per lo scopo (gli Hydhra Studios, che vengono citati in ogni demo).
Il progetto è stato messo a “dormire” nel 1995 e “risvegliato” nel 2002, quando sono tornato a produrre i concept Souvenir du Triangle d’Or e Le dernier jour dans l’espace (quest’ultimo sarebbe dovuto uscire addirittura su vinile) e le colonne sonore Envolée Pindarique e Der Anhalter. In realtà poi molto di questo materiale non è mai stato pubblicato, e alcuni brani sono tutt’ora inediti, alcuni pezzi tratti da Souvenir du Triangle d’Or e Le dernier jour dans l’espace sono finiti in un paio di compilation su CD e nel demo L’age du Triangle d’Or, mentre la colonna sonora del cortometraggio Envolée Pindarique è stata pubblicata in tiratura limitatissima in allegato al cortometraggio. Nel 2008 ho chiuso (definitivamente?) tutte le mie attività musicali, compreso il progetto In Vitro Test.
Nel frattempo ero tornato a suonare come bassista con un paio di gruppi di Treviso, The Sunset Boulevard, di genere dark-wave, e Kitsune, shoegaze. Ma suonare dal vivo e impegnarmi in progetti di questo genere, non fa più per me, mi poteva piacere durante l’adolescenza, ora salire su un palco mi provoca solamente fastidio e disagio.
La maggior parte di quanto prodotto da In Vitro Test ruotava attorno ad un certo tipo di erotismo, connotato da una forte nota di morbosità: la maggior parte dei lavori erano concept industrial-ambient ispirati a tomi di letteratura erotica colta… realizzai infatti due demotape ispirati alla Storia dell’occhio di Georges Bataille, uno a L’occhio solare dello stesso autore e infine il concept inedito ispirato a Ricordi del triangolo d’oro di Alain Robbe-Grillet. Tra gli “inediti” c’è un brano che viene utilizzato tuttora come colonna sonora da un mio amico, Rolando “Senza Speranza”, per la sua trasmissione radiofonica Pandora’s Box su Radio Cooperativa di Padova. È tratto della colonna sonora per un cortometraggio mai realizzato, Der Anhalter: posso dire di avere il mio Unreleased Themes for Hellreiser!
Fabrizio: Che musica ascoltavi nel periodo dell’adolescenza? Come sono cambiati i tuoi gusti musicali con il passare del tempo e ora cosa è rimasto? Quando ne avevamo parlato di persona, mi dicevi che alcuni gruppi ti avevano stufato. Troppi ascolti, o troppi gruppi sopravvalutati?
F.C.N.: Uh… argomento tosto… Dunque, preferirei cominciare dall’infanzia, dal momento che ho sempre ascoltato musica, a partire dalle bobine sul Geloso di mio padre, che contenevano registrazioni di musica trasmessa dalla radio negli anni sessanta. Ecco, quella è la mia vera “base”: pop italiano di quel decennio, più svariata easy listening e musica “surf”. In seguito, da bimbo, ho ascoltato molta discomusic, Nueva Canción Chilena, colonne sonore e sigle. In altre parole la musica che poi è diventata il centro di interesse di Abastor. Durante la prima adolescenza sono diventato piuttosto snob e mi sono messo ad ascoltare musica classica e lirica, contemporaneamente ascoltavo anche Battiato e… gli Squallor! Solo verso i 16-17 anni sono stato “toccato” dal rock e mi sono appassionato al movimento hippy-psichedelico: allora sono entrati in ballo soprattutto i Pink Floyd. Molti altri artisti appartenenti a quell’orbita di interesse, psichedelica, progressive e primo hard rock, non sono mai riuscito ad ascoltarli e digerirli. Verso la fine dell’adolescenza mi sono preso la mia bella cotta alternativa, e da lì ho preso ad ascoltare soprattutto punk, post-punk, industrial e dark-wave. Infine, da metà anni novanta, ho chiuso il cerchio e sono tornato alle origini.
Oggi ascolto un po’ di tutto questo, senza alcun problema di coerenza: considero il sincretismo la miglior scelta in tutti gli ambiti dello scibile umano, dalla cultura alla religione. La “coerenza” è una puttanata che lascio a chi ha tempo da sprecare in ideologie e fedi. Cioè non me ne frega niente: ascolto quel che mi piace senza sovrapporre inutili sovrastrutture mentali ai miei gusti, che vanno dal neo-folk alla musica barocca, passando per musica popolare, medievale, musica sacra, vecchie colonne sonore, pop, easy listening, fino al cabaret italiano dagli anni cinquanta ai settanta. Ma ascolto quasi esclusivamente musica datata, l’unico genere che non sopporto è il reggae, poi diciamo che non ho mai amato molto neppure metal e hard rock (ma questi, in molti casi, almeno, sono divertenti da vedere, perché molto “teatrali”) e mi piace molto poco anche tutto quanto diventa “classico” e viene celebrato dalla stampa musicale e dalla televisione. Sono troppo celebrati per i miei gusti gli anni sessanta e ormai lo sono anche il punk del ’77 e la new-wave degli anni ottanta. Infatti mal sopporto gli anni ottanta e la loro musica, anche se una parte dei miei ascolti preferiti viene proprio da quel decennio. In particolare diciamo che mi è caduto in disgrazia tutto l’ambiente “gothic”, persino Siouxsie & the Banshees, che era una delle mie formazioni preferite, non riesco più ad ascoltarla che in dosi omeopatiche. Roba come Sisters Of Mercy o Christian Death non la posso più soffrire. Al limite preferisco i Virgin Prunes o gli X-Mal Deutschland.
Certo, penso che molti artisti di quel genere siano enormemente sopravvalutati, ma molto ha giocato anche la saturazione e la frequentazione di certi ambienti che mi sono andati in disgrazia. Ho fatto il dj wave, non me ne vergogno affatto, ma quel mondo non mi appartiene più. Ho frequentato serate e sono stato a concerti di varie band alternative, e i concerti di questo genere, anzi, i concerti rock in generale, non li sopporto più. Mi provocano solamente una gran insofferenza. Attualmente mi muoverei solamente per andare a vedere Heino (cantante di genere Schlager che recentemente ha realizzato un album di cover di brani rock tedeschi, compreso Sonne dei Rammstein) o The Ukulele Orchestra of Great Britain (grandissima formazione anglosassone che esegue solo cover riarrangiate per ukulele). L’ultimo concerto a cui ho assistito è stato quello di un mio amico d’infanzia, il jazzista David Boato, a cui sono capitato per caso. Interessante, anche perché lui e gli altri artisti con cui suonava eseguivano alcuni brani pop rivisitati in chiave lounge.
Fabrizio: Quali sono attualmente i tuoi artisti preferiti?
Mah, più che artisti preferiti posso dire di avere degli album preferiti che ascolto più o meno a ripetizione, e questi non si identificano necessariamente con i miei artisti preferiti, che sono molti e dei generi più disparati. In questo momento posso dire di prediligere l’ascolto di "What ends when the symbols shatter?" dei Death In June; "Unknown Pleasures" e "Closer" dei Joy Division; "American IV: When the man comes around" di Johnny Cash (uno degli artisti la cui musica considero ideale colonna sonora quando si guida, assieme a Elvis Presley); la celebre "Funeral music for Queen Elisabeth" di Henry Purcell (ne ho un paio di esecuzioni abbastanza recenti); "Suspiria" delle Miranda Sex Garden; "East Empire Light" dei Musica Antiqua (si tratta di una formazione serba che si interessa di musica antica, l’album, composto da brani musicali sacri ortodossi dell’Impero Bizantino, è autentica musica da meditazione) e anche il loro album omonimo del 1984 contenente musica medievale e rinascimentale di corte; "Surfer Rosa", "Doolittle" e "Bossanova" dei Pixies; "Testa plastica" e "Acido acida" dei Prozac+; "Cesso 2012" di Fatur; "The Secret Of Life" e "Anarchy in the Ukulele" di The Ukulele Orchestra of Great Britain; "Las ultimas composiciones de Violeta Parra" di Violeta Parra; "Te recuerdo Amanda" e "El derecho de vivir en paz" di Victor Jara; il doppio "Wake" dei Dead Can Dance; l’album omonimo dei Violent Femmes… più tante altre cose, compresi vari altri gruppi della 4AD e colonne sonore italiane degli anni sessanta e settanta.
In genere prediligo musica da “meditazione”, musica “circolare”, “ricorsiva”, che è un po’ un sinonimo di “minimalista”, cioè quel genere di composizioni costruite da un unico giro di note che si ripete ad anello aggiungendo strumenti e variazioni, come i mantra indiani, il Bolero di Ravel, North Star di Philip Glass, Inferno delle Miranda Sex Garden, le composizioni contenute in Kanashii – Il piacere della tristezza di Erik Ursich.
Come vedi da questa lista mancano completamente gli ascolti più strettamente “abastoriani”, anzi, tolte le colonne sonore, nessuno di quelli elencati si potrebbe considerare neanche minimamente abastoriano. Ma per me non è un problema. Come detto, ascolto quel che mi piace senza inutili sovrastrutture. Ricerche, interessi e approfondimenti senz’altro, ma le sovrastrutture ideologiche sono inutili e controproducenti.
Fabrizio: Secondo te con la facilità di accesso alle informazioni fornita da internet, il concetto stesso di underground è superato e/o ampiamente mutato nel significato?
F.C.N.: L’underground è morto! E questo già almeno dalla metà degli anni novanta. Sì, pressappoco coincide con la diffusione di Internet, ma penso che il fenomeno fosse già in atto da ben prima dell’avvento di questa tecnologia. Periodicamente i fenomeni marginali, i movimenti, nati in ambito giovanile, le “nuove ondate”, vengono pian piano assorbite dal mainstream. E questo è avvenuto in tutti i campi, politico, musicale, artistico, cinematografico… La musica underground stava già declinando verso la fine degli anni ottanta/inizio novanta, e infatti è stato in quel periodo che è emerso il fenomeno della “Incredibly Strange Music”: la riscoperta di easy listening, della cosiddetta “cheesy music” (cioè la musica pop più colorata e commerciale, ma anche con meno pretese artistiche), dell’euro trash, che da noi poi ha preso il nome di trash…
Dal punto di vista dell’informazione, certamente, oggi le fanzine non hanno più alcun senso. Le fanzine, infatti, fornivano informazioni non raggiungibili attraverso altri canali. Ricordiamo che la stampa underground, autoprodotta e sostanzialmente amatoriale, ha per lungo tempo svolto il compito di informare su quegli artisti indipendenti ed esordienti di cui la stampa musicale ufficiale non si interessava. Le fanzine musicali nascono già in ambito hippy, ma è poi a partire dal punk che divengono un vero e proprio simbolo di quel modo di affrontare la musica che si riconosce nello slogan “do it yourself”. L’errore è credere che si occupassero solo di musica, infatti c’erano fanzine su qualsiasi genere di argomento (è esistita, non so se esista ancora, anche una Pisszine stampata su carta gialla, che dal nome è facile intuire quale argomento trattasse).
Con Internet i mezzi di informazione alternativa si moltiplicano: che senso ha ora spendere soldi nello stampare su carta una fanzine, che raggiungerebbe 100 persone, forse 1000, nel caso di una produzione “ricca”, quando un blog, una e-zine, una pagina Facebook quegli stessi utenti li raggiunge in pochi minuti, gratis e senza impiegare altro che il tempo per scrivere il pezzo? Ormai le poche fanzine rimaste devono soprattutto puntare sulla componente feticista, quella del piacere dato dall’avere in mano il “pezzo di carta”, fornire qualcosa che la rete non può fornire e, ma solo secondariamente, puntare sulla qualità e sulla quantità di informazioni. Anche Abastor si era evoluta in tal senso, puntando a fornire quegli approfondimenti che la rete non era in grado di dare. Ma la stampa underground non ha decisamente più senso, in quest’ambito.
La poca stampa underground che vedo ora, come tutto quanto ormai, è diventata fighetta, da hipster che si circondano di oggetti che hanno la sola valenza di rappresentare un mondo ormai scomparso al quale vorrebbero fare riferimento, ma che non hanno mai vissuto e perciò tentano, in una imitazione asettica che ha quasi della parodia, di rappresentarlo attraverso dei simboli, dei feticci, per far credere, soprattutto a sé stessi, di essere alternativi. È una delle illusioni più artificiali dei nostri tempi. Queste fanzine hanno spesso solo la funzione di oggetti, non di mezzi attraverso i quali raggiungere una qualche conoscenza, e perciò spesso sono puri esercizi di stile che non contengono nemmeno testo, ma sono immagini, tanto a nessuno interesserebbe mettersi a leggerle, spesso nemmeno a sfogliarle, ma solo utilizzarle come complementi di arredamento, come una poltrona o un tavolo, con cui circondarsi. Stesso scopo ha spesso la musica (e mi riferisco soprattutto a certa musica indipendente italiana degli ultimi 10-15 anni che per me è andata sempre più deteriorando producendo fenomeni di una noia mortale), anch’essa un oggetto da ostentare per dimostrare la propria appartenenza. Meglio Lady Gaga o Miley Cyrus allora.
Fabrizio: Meglio vinile o cd? Sei contento del revival che ormai dura da anni riguardo al mondo del vinile? Hanno ripreso a costruire i giradischi, a stampare nuove uscite in vinile e a ristampare vecchio materiale… Spesso però ci troviamo di fronte a speculazione vera e propria: ha senso pagare un vinile più di un cd? Una volta era il contrario! E le mostre del disco?
F.C.N.: Per quanto mi riguarda ho sempre preferito il vinile. Anche quando i CD sono diventati di moda, quando sembrava dovessero rimpiazzare definitivamente il vecchio “disco nero”, che allora tutti si misero a svendere. Non ho mai provato alcun amore nei confronti del nuovo supporto digitale, e ho continuato ad ascoltare la musica su disco “analogico”. Al contrario di molti, non mi sono mai sbarazzato dei miei microsolchi in favore del digitale, anzi, continuo a fare il contrario: se trovo a un prezzo ragionevole un LP che mi piace, e di cui possiedo già il CD, lo prendo rivendendo quest’ultimo. Il CD ha senso in quei casi in cui le copie in vinile sono introvabili e di una rarità esoterica, oppure quando si tratta di raccolte o edizioni di materiale inedito: grandi cose si sono fatte con la ristampa di colonne sonore da parte di molte case discografiche quali Dagored, Easy Tempo, Beat Records… In molti altri casi accade invece l’esatto contrario: ci sono supporti in vinile che non sono mai stati riversati in digitale, perché ne sono stati perduti i master o perché si tratta di “discacci” che non comprerebbe nessuno, in tal caso recuperare il vinile è l’unico modo per ascoltare quella musica.
Detto questo, che è un po’ il pensiero comune di molti appassionati di musica, devo dire che sì, è giusto che il vinile costi più dei CD, perché la qualità e la durata del supporto analogico è superiore a quella del supporto digitale, destinato a deteriorarsi nel tempo anche se non viene usato, mentre un vinile può anche coprirsi di muffa, ma con un panno e un po’ di alcool alimentare può essere riportato a nuovo. Ovviamente se non è stato maltrattato dal suo proprietario e se questi lo ha ascoltato con un giradischi decente. Il luogo comune che i dischi in vinile si rovinino o che “sfrigolino”, trova fondamento solamente nell’antico uso di giradischi di scarsa qualità, come le fonovaligie o i mangiadischi, che rovinavano i dischi per la qualità e il peso squilibrato della puntina o per il loro funzionamento intrinseco. I giradischi seri, quelli che si usano con un comune rack stereo casalingo, non rovinano i dischi.
Inoltre il costo di produzione di un CD è irrisorio, e molto più basso rispetto a quello di un vinile. Piuttosto trovo che sia irragionevole far pagare una ristampa, per quanto “figa”, in vinile da 180gr e con copertina filologica, più della stampa originale. Anche perché sono spesso e volentieri ristampe di dischi comunissimi, dei quali esistono migliaia di copie in buono stato nel mercato dell’usato.
Ma il mercato discografico versa in una crisi senza ritorno: il vinile sopravvive come una piccola percentuale delle vendite e negli ultimi anni sta un po’ rimontando solo per la perdita di terreno del CD, ma attestandosi sempre a livelli inferiori all'1%. Nel mercato dell’usato i prezzi sono crollati anche grazie alla possibilità di acquistare su Internet all’estero, e solamente nelle mostre del disco si continuano a tenere prezzi ridicolmente alti per dei supporti che ormai sono solo pochi feticisti ad acquistare. Il CD copre probabilmente qualche fetta di mercato in più, ma il grosso ormai lo fa la musica digitale, che si può comprare online in forma di file da scaricare. E probabilmente io sono vecchio e appartengo a un’altra generazione, ma non trovo alcuna giustificazione plausibile per la quale dovrei pagare per non avere niente altro che una serie di numeri codificati in un file che scarico sul mio computer. Certo, è comodo avere musica digitale su chiavetta o nello smartphone, così da poterla ascoltare ovunque, ma se devo pagare preferisco possedere comunque la mia copia “fisica” della quale fare copia in mp3.
No grazie, io continuo a comprare i dischi in vinile ai mercatini dell’usato (le mostre del disco, così come tutti i mercatini per collezionisti “specializzati”, non li frequento più per scelta).
Fabrizio: Il fascino dell’oggetto musicale ha avuto alti e bassi nel corso della storia. Bobine, vinili, musicassette, CD, fino a sgretolarsi nella cosiddetta “musica liquida” costituita da file salvati in una qualche memoria. Ora per giunta, si sta progressivamente passando dai file “di proprietà” salvati nel proprio pc, alla musica cloud fatta di servizi come Spotify dove la musica non è più “nostra”, ma diventa un servizio che ci viene offerto. Un po’ come la radio... Il percorso è ormai tracciato? O il bisogno di “fisicità” in qualche modo ritornerà come sta succedendo per il vinile?
F.C.N.: Ecco, il paragone con la radio calza a pennello! Infatti il cerchio, così, si chiude. I primi sistemi dotati di un altoparlante, commercializzati a livello popolare e atti a diffondere musica e informazione (non parliamo dei grammofoni, che erano originariamente oggetti di lusso ristretti ad una facoltosa élite) era la radio. Poi sono arrivati i magnetofoni a bobine (preceduti da quelli pionieristici a filo): mio padre possedeva un Geloso G 255, il cosiddetto “Gelosino”, e con quello registrava la musica alla radio e sé stesso e il suo complesso che suonavano. Parallelamente sono divenuti popolari i vinili, che permettevano di “possedere” la musica amata, i successi del momento. Negli anni settanta sono divenuti popolari anche i formati delle musicassette e dello Stereo8 (utilizzato soprattutto in auto). Negli anni ottanta è nato il CD che ora è divenuto più obsoleto del vinile. Infine gli mp3 e ora i servizi di musica in streaming. Cioè si è ritornati alla “radio”, ad ascoltare quello che fornisce un servizio, anche se non ci si limita ad ascoltare passivamente, ma si sceglie la propria playlist.
Questo ha senz’altro il vantaggio di essere spesso gratuito, di permettere a chiunque di ascoltare (quasi) tutto senza doversi sobbarcare il problema dell’acquisto e dello stoccaggio dei supporti fonografici, e ha l’indiscutibile vantaggio della portabilità. Ma la qualità intrinseca della musica digitale compressa è pessima e nessuno sembra rendersene conto. Inoltre manca il gusto della ricerca, della conoscenza, dell’approfondimento. È senz’altro molto più facile raggiungere tutta la produzione discografica di un artista e ascoltare anche quei brani che un tempo erano disponibili magari solo su edizioni limitate rare e costose, ma l’esplorazione e la scoperta di musica realmente sotterranea diventa più difficile: io posseggo molti 45 giri di cui non esiste traccia digitale e che nessuno si sognerebbe mai di rendere disponibili in questi servizi on demand.
In altre parole puoi ascoltare (ma lo stesso ragionamento può valere per la tv on demand) tutto quello che vuoi, ma solo tra quello che il servizio ti rende disponibile. E questo mi suona sinistramente simile a una dittatura culturale.
Fabrizio: Hai avuto modo di contattare numerosi artisti, sia telefonicamente che di persona. Hai qualche aneddoto da raccontarci?
F.C.N.: Beh, uno degli artisti verso cui mi sento maggiormente riconoscente è senz’altro Riz Samaritano: di lui una decina di anni fa su Internet non si trovava niente, non si riusciva a sapere che fine avesse fatto, se suonasse ancora… Così aprii un sito dedicato alle sue opere e grazie a questo (allora l’unica pagina in Internet che parlasse di lui), venni contattato via e-mail e mi venne fornita una rassegna stampa e il suo numero di cellulare.
Io sono una persona piuttosto timida e mi “blocco” quando si tratta di contattare telefonicamente chiunque non conosca di persona, ho così furbescamente assegnato il compito del primo contatto a un “inviato” milanese di Abastor, Frank Malatesta, dato che Riz risiede in un comune non molto distante da Milano, che ha provveduto a telefonargli e intervistarlo per la fanzine.
Incredibile a dirsi, ma quel sito internet e quell’articolo su una modesta fanzine, hanno contribuito a rilanciare Riz! In seguito di lui si è occupata la testata Jamboree, che si interessa di rock’n’roll e musica “vintage”. Grazie a tutto questo nel 2007 la casa discografica Duck Records ha pubblicato una raccolta dei suoi migliori singoli del periodo Combo Record, All the Best, e ha ristampato (parzialmente, manca una traccia), l’album Ricordando Fred.
Più tardi ho incontrato Riz Samaritano dal vivo e si è rivelato un’ottima persona, cordialissimo, molto alla mano, mi ha fatto entrare nel suo “sancta sanctorum”, dove conserva in una teca un pezzo del paraurti dell’auto di Fred Buscaglione, suo idolo di sempre, e mi ha pure regalato alcuni dei suoi rarissimi 45 giri usciti per la Combo!
Altra persona di cui conservo un grande ricordo è lo scomparso Osvaldo Cavandoli, il papà de La Linea. In compagnia di Mauro Gariglio, l’attuale disegnatore del cartone animato, lo abbiamo intervistato per la rivista Il Giaguaro. Il “Cava” ci ha fatto entrare nel suo studio milanese, mostrandoci gli strumenti del mestiere con cui riprendeva e montava i caroselli della Lagostina, e i personaggi che animava in stop motion.
Questi personaggi sono veramente grandi, persone cordiali e alla mano, gente che ha fatto grandi cose, ma che al contempo non si sono fatti corrompere dalla celebrità. Altrettanto non posso dire di certo vippame che batte i salotti televisivi, personaggi che godono anche di una certa notorietà, ma che di concreto non hanno fatto nulla, e al loro attivo hanno a malapena un paio di 45 giri o un libro pubblicato grazie alle loro apparizioni televisive. Persone che si rivelano assai spiacevoli, piene di sé, arroganti e ingiustificatamente aggressive.
Perciò ho deciso da tempo di non occuparmi più di chi non lo merita, di escludere dagli interessi abastoriani tutto questo cascame televisivo, questo grasso che cola dal catodo, condannandolo alla damnatio memoriae abastoriana che gli spetta, mentre sostengo e continuo a sostenere chi lo merita, chi ha veramente dato qualcosa e che come persona, oltre che come artista, dimostra di essere meritorio dell’attenzione del popolo abastoriano.
Fabrizio: Raccontaci dell’esperienza editoriale con la Tunnel Edizioni con cui hai pubblicato i libri Trash Music e Attacco Alieno!
F.C.N.: Conosco Oddone Ricci, l’editore della Tunnel Edizioni, fin dai primi anni novanta, quando produceva una fanzine di racconti umoristici intitolata Uh! Eravamo in contatto, poi ci conoscemmo di persona all’epoca di Mondo Bizzarro (una storica libreria “sotterranea” di Bologna, successivamente trasferitasi a Roma, che vendeva libri su weird culture, erotismo estremo, pin-up, fumetti e vario altro materiale “apocalittico”, e che allora era un vero e proprio punto di riferimento e di ritrovo per tutte le persone che orbitavano attorno a quelle cose) e, visto quello che pubblicavo su Abastor, in particolare le recensioni di 45 giri “cheesy”, mi propose di raccoglierne un tot in un libro, una mini guida, dal titolo Trash Music. Lui aveva da poco dato alle stampe il volume Trash Cinema, miniguida sul cinema di serie B, ed erano gli anni in cui, appunto, era esploso il fenomeno della cultura trash, e i sottoprodotti a low budget, ma anche scorreggioni o semplicemente “troppo facili”, erano diventati oggetto di interesse soprattutto per chi veniva, come me, dalla cultura underground, industrial e apocaliptic folk: l’underground era in crisi. Fu così che nacque Trash Music: assemblato in un paio di mesi di lavoro, vide la luce nell’autunno del 1996. In seguito ebbe molte recensioni su riviste di ogni tipo, comprese molte riviste femminili e di moda. Mi fruttò un paio di passaggi televisivi su VideoMusic (il mio lavoro interessava molto ai responsabili della programmazione), all'interno di Roxy Bar di Red Ronnie e di Arcobaleno.
Un anno dopo proposi a Oddone di fare una ricerca, più approfondita e meglio curata, sulla fantascienza di invasione aliena del periodo d’oro: allora Internet era ancora all’inizio, reperire informazioni su determinati film di fantascienza non era facile ed i libri erano utilizzati molto di più come guide da consultare per la visione. Il libro ebbe un anno di gestazione, durante il quale io e gli altri autori (Erik Ursich e Ivan Fedrigo), svolgemmo numerose ricerche e ci guardammo con attenzione tutte le pellicole interessate. Il libro uscì nel 1998 ed ebbe anch’esso delle buone recensioni. In origine il progetto prevedeva di far uscire successivamente altri volumi su altri filoni (fantascienza spaziale, viaggi nel tempo e in isole ferme nel tempo, ucronie e distopie, ecc.), ma quello fu l’ultimo libro pubblicato dalla casa editrice bolognese, che in seguito chiuse i battenti. Peccato, perché aveva pubblicato dei volumi veramente interessanti.
Il mio Trash Music sembra essere molto conosciuto tra le persone che si interessano di cultura weird e di fenomeni musicali cult come la pop music, ma ha anche più di una imperfezione dovuta al poco tempo in cui è stato scritto e alle poche fonti attendibili allora a mia disposizione. Mi sento molto più orgoglioso del lavoro svolto per Attacco Alieno!, ma a quanto pare il mio nome rimane legato soprattutto al primo libro.
Fabrizio: Hai informazioni specifiche su come mai ha chiuso la Tunnel Edizioni? Sei più in contatto con l’editore?
Sì, Oddone Ricci lo sento ancora. È un po’ che non lo incontro di persona, ma non frequento nemmeno più Bologna così assiduamente come una volta, ora ci capito poche volte l’anno. Beh, sostanzialmente la Tunnel ha chiuso perché ebbe grossi problemi con i distributori, destino comune a tutte le piccole case editrici. Ma i volumi della Tunnel si trovano ancora in commercio, soprattutto presso i remainder, o presso qualche libreria alternativa superstite che li considera libri di culto!
Fabrizio: La tua avventura su web? Ricordo che hai aperto vari siti, poi chiusi, mentre altri proseguono...
F.C.N.: Beh, sì, tutto partì nel 1998 con il sito statico di Abastor, a cui poi si affiancarono altri siti statici dedicati a varie passioni della fanzine (il primo sito web ad aver parlato del Sandokan di Sergio Sollima con Kabir Bedi, ad esempio, un fansite dedicato ad Heino, quello dedicato a Riz Samaritano, ecc.), mailing list, forum, blog (Abastor Daily), Facebook, ecc. Nei primi anni duemila si creò un’autentica comunità abastoriana, che contava non meno di un centinaio di persone, attorno a cui cominciarono a crearsi anche momenti di incontro (gli AbasTour, prima, le Serate Abastoriane, in seguito). Sono stati bei momenti che ci hanno permesso di conoscerci di persona tra abastoriani e di condividere momenti di dionisiaco misticismo.
Via via ho dismesso vari siti (con l’avvento di portali dedicati a singoli argomenti e Wikipedia, molti miei siti mi sono sembrati inutili e troppo amatoriali) e infine con la chiusura del progetto Abastor ho chiuso tutto e aperto il Centro Studi Abastoriani.
Fabrizio: Attualmente stai collaborando con la rivista da edicola Classix! Ci spieghi per chi non la conosce di cosa tratta la rivista? Te di cosa ti occupi? Vuoi citare qualche articolo di cui sei particolarmente soddisfatto?
F.C.N.: Classix! è una delle tre riviste curate da Francesco “Fuzz Fuzz” Pascoletti (le altre due sono :Ritual:, che si occupa di goth, neofolk e industrial, e Classix Metal, che tratta, ovviamente, ovviamente, di metal), viene stampata e distribuita dall’editrice musicale Arcana e si occupa prevalentemente di rock classico (progressive, psichedelica, AOR, hard rock…).
Nel… 2008, mi pare, Fuzz Fuzz volle rivedere la struttura della rivista, che allora era arrivata al numero 11, inserendo anche una buona parte di rubriche “abastoriane”. Trovarono così posto articoli che parlavano di cinema di genere, starlette degli anni settanta, fumetti “poveri”, oggetti, abbigliamento e dischi strambi. Io mi presi carico di quest’ultima parte con la rubrica “L’Ultima Pagina”, una sorta di “Bustina di Minerva” in versione musicale, dove ho trattato soprattutto 45 giri di etichette estemporanee che producevano tarocchi o discacci a doppio senso, ma anche di VIP canterini come Franco Nero, Janet Agren o Ewa Aulin.
Col tempo la rubrica che trattava di oggetti caduti in disuso e legati al passato, “Reliquie”, ha perso il suo redattore, così mi sono offerto di prendermene carico, trattando prevalentemente di vecchi giocattoli e altri oggetti che considero cult.
Sono particolarmente soddisfatto delle due doppie puntate della rubrica “L’Ultima Pagina” dedicate ai discacci di stornelli omofobi e al sottofilone di dischi nati in seguito allo scandalo Profumo e precursori delle orgasmo song, e anche dei miei articoli sui giocattoli in “Reliquie”, per quanto brevi e certamente non in grado di esaurire tali argomenti in una pagina.
Fabrizio: Quando sei sceso a Genova, sei andato a fare un tour fotografico al cimitero di Staglieno. Qualcosa dell’estetica dark/new wave permane, o è passione per l’arte?
F.C.N.: Direi che sono entrambe le cose... e nessuna delle due. Ho avuto un lungo periodo di rigetto a partire da metà anni novanta, nei confronti di tutto quanto si trovasse nell'orbita dell'estetica e della sottocultura dark/goth. E così ero diventato anche allergico al visitare cimiteri per esaltazione macabra e soprattutto per posa. Trovo tutt’ora intollerabili molti temi ricorrenti appartenenti a quel mondo. Ad un certo punto, però, mi sono detto: ma chi se ne frega? Io ci vado perché mi piace. Alcuni cimiteri, come ad esempio Staglieno a Genova, il Verano a Roma o Pére-Lachaise a Parigi, sono molto belli da visitare, ci incontri pochissime persone (che comunque, soprattutto a Pére-Lachaise ci vanno anche a passeggiare) e ti permettono di camminare anche per ore nella pace e nella tranquillità.
Non nutro alcuna morbosità nei confronti della morte, nonostante qualcuno, vedendo le mie foto, pensi questo e le apostrofi come “macabre”. Non trovo alcunché di macabro nel fotografare arte cimiteriale, potrebbe esserlo andare in cerca di ossa umane o fotografare cadaveri: è molto più macabro quel giornalismo che indugia su particolari sanguinolenti di efferati delitti, è voyeuristica e morbosa quando affonda il proprio obiettivo nel dolore delle persone, esponendolo pornograficamente al pubblico ludibrio. Il gusto estetico per l’arte cimiteriale, semmai, è romantico, malinconico e decadente, non certo macabro e morboso.
Al tempo stesso fotografo anche edifici abbandonati, o altri soggetti privi di vita, segnati dalla decadenza. È un voler trasmettere un senso di vuoto, di mancanza di calore e di vita.
Fotografo perché la fotografia è la prima forma d’arte a cui mi sono interessato e in cui mi sono specializzato, che non ho del tutto abbandonato anche se i risultati ottenuti mi soddisfano molto raramente.
Fabrizio: Che cosa stai preparando di nuovo?
F.C.N.: Sto lavorando ad un progetto a lunga scadenza... c'è un editore interessato, ma per il momento non voglio parlarne pubblicamente, per scaramanzia!