Boy George già da un po’ di tempo non fa più rima con quel ragazzo cresciuto tra eccessi, successi, trasgressioni e finito poi in un baratro di rovinose cadute. Tutti conoscono il gossip più becero e sfrontato consumato sulla sua pelle; tutti o meglio nessuno aveva capito che la “sua maschera” era finita per sempre con le ultime comparsate fine anni ottanta. In pochi si erano accorti che lui, “ex” di tutto un po’, aveva invece da sempre lottato con tutta la sua forza per ritagliarsi qualche scampolo di vita sana, dove poter coltivare le sue fulgide intuizioni. Ma come diceva il maestro Carmelo Bene nessuno è autore di alcunché. L’attore diventa così un tutt’uno con il suo personaggio. E così anche questo ragazzino, nato in una famiglia popolare di emigranti irlandesi a Londra, diventa inconsapevolmente prigioniero della sua stessa rappresentazione teatrale in un rapporto di osmosi tra la figura e il figurante intriso dai molti problemi famigliari assorbiti nel tempo.
E’ superfluo nonché fuori luogo stare qui a ricordare le cose buone fatte in tutto questo tempo da George, (ma dimenticate da quello stesso mainstream che lo aveva portato alle stelle senza ritegno, vedi l’esplosione in quegli anni di MTV) un periodo letteralmente ignorato per non dire cancellato dalle cronache specializzate di musica e solo ora riportato alla luce dopo l’ennesimo miracolo. E sì perché a vedere oggi George O’Dowd c’è da gridare al miracolo per davvero se, come da molte parti della stampa ufficiale, si era data per certa la fine artistica di un’icona del recente passato. Detta in tutta franchezza ho sempre sospettato che una buona fetta della critica musicale avesse da sempre mal sopportato un fenomeno ritenuto a torto solo d’immagine e poco di sostanza. E allora solo adesso ci si è accorti di piccoli camei e capolavori degli ultimi venticinque anni come ad esempio Cheapness And Beauty o The Martyr Mantra.
Ma (e qui veniamo a noi, ai giorni nostri) a cinquant’anni suonati, con una vita passata a combattere con il proprio io più che con la mancanza d’ispirazione, non si dà alle stampe un nuovo album come This is What I do se non si possiede del talento vero. La voce ce la ricordiamo tutti, punto di forza di una proposta musicale molto meno banale di quanto si fosse immaginato sin dall’inizio con l’appellativo pop. Questa però scordatevela o meglio siate pronti a una nuova sorpresa: non più un’estetica e una presenza scenica rivoluzionata a colpi di make-up, ma un’immagine cambiata a partire dalla voce calda, matura e sporcata dal tempo come succede a un crooner. Non più la ricerca continua di uno stereotipo immaginato e perseguito nel tempo per restituire di se una rappresentazione simbolica del fanciullo androgino e farsesco, ma la constatazione che la naturalezza è quanto di più ricercato ci sia per un uomo che non ha più il dovere, ma il diritto di stupirsi. Il titolo dell’album è già di per se evocativo su quanto vado a dire, tanto più se si pensa che questa volta il Boy abbia semplicemente fatto le cose che gli vengono meglio. Fin da subito ci si accorge che il maestro è ancora lui e tutti gli altri a rubare a man bassa dal suo repertorio.
Diciamo subito che questo lavoro è essenzialmente un disco soul, dub, reggae; ma detta così è veramente una sintesi all’ennesima potenza. La differenza la fanno i contenuti e lo stile. Boy George sembra in questo disco la naturale evoluzione dei suoi Culture Club senza tralasciare il suo passato istrionico di re della musica house. Ma c’è di più: alcuni pezzi sono così misurati (nel senso della perfezione simmetrica delle misure) che sembra già di essere di fronte a dei classici senza tempo.
My God stupisce per senso della melodia, dolcezza e positività intrinseca nella riscoperta della vita. Coretti sullo sfondo che richiamano al gospel gioioso che trasuda america; ma il finale, convertito da un assolo di chitarra del tutto inedito, rende giustizia a dei riverberi da vero punk/rocker. Un brano che potrebbe appartenere a tanti mostri sacri del rock-pop e allora tutti a battere le mani. It’s easy è una canzone tanto semplice quanto emozionante, quei brani che una volta scrivevano i The Smiths … Li ascolti e non bisogna aggiungere altro. Bellissima la reinterpretazione di Death of Samantha di Yoko Ono una preghiera o una confessione toccante, a seconda che ne vogliate cogliere l’aspetto sacro o profano. Cito ancora Any Road perché è il pezzo che più di altri mi scalda l’anima e fa viaggiare la mente fuori dal tempo. In questo lo percepisco come un pezzo “soul” nel profondo, come un soffio di vento che porta via i pensieri negativi e ci riporta ad ambienti famigliari del tutto sopiti.
Non è vivisezionando il disco comunque che riuscirò a trasmettere quante e quali emozioni susciti questo disco da scoprire e approfondire nella propria intimità. Aggiungo solo che tutto l’album ha una buona tenuta con punte eccelse. Trovate qui dentro un po’ di tutto dal pezzo groove, al pezzo gioioso; dal pezzo intimista al pezzo energizzante. Si arriva in fondo alla traccia pregustando quella successiva e questo la dice lunga sullo spessore del lavoro. La sensazione che rimane alla fine di questa vera e propria esperienza sensoriale è quella di essere di fronte ad un disco sobrio pur nella sua poliedricità, a un disco consapevole pur nella sua disinvoltura. Sembra proprio che basti un Boy George ancora in fase di recupero per far sì che normali canzoni diventino pennellate di estro: era morto per la memoria, ma non per quelli che lo avevano conservato gelosamente nei ricordi d’infanzia (come dichiarato in tempi non sospetti da Lady Gaga o da Antony and the Johnson). Ancora oggi, a distanza di trent’anni, indelebile nella storia rimane la sua partecipazione con il “suo Club” al Festival di Sanremo che proprio tra poche settimane riaprirà i battenti. Allora fu Victmis ad abbagliarci: soave, struggente, carica di sentimento e vibrante di emozioni come una Madame Butterfly. Il suo travestimento ambiguo e per niente volgare né pretestuoso era stato la gioia per grandi e piccini che vedevano in lui solo tanta ironia e libertà d’espressione. Adesso sia a lui sia a noi basta la sua buona musica e sapere che forse si è innamorato definitivamente della vita e dei suoi piccoli gesti quotidiani … Delle cose che contano veramente …
Voto: 8/10
Boy George - This is What I do
2013 (Very me)
Genere: Soul, Dub, reggae
1. King Of Everything
2. Bigger Than War
3. Live Your Life
4. My God
5. It's Easy
6. Death Of Samantha
7. Any Road
8. My Star
9. Love And Danger
10. Nice And Slow
11. Play Me
12. Feel The Vibration