"Se amate Barbie, questo film fa per voi. Se odiate Barbie, questo film fa per voi". Nel pubblico che va a vedere Barbie ci sono entrambe le fazioni, e se il marketing per primo se ne accorge è chiaro che la regista Greta Gerwig aveva capito sin da subito gli elementi necessari per farlo funzionare. Per raggiungere, se non il (meritato, ottenuto) successo, almeno un engagement appriopriato per un prodotto di marketing di tale scala.
Ed ecco, nella sua semplicità, l'ingrediente segreto. Barbie di Gerwig, sotto tutti gli aspetti il film dell’anno, non è un film su un personaggio o su un giocattolo: è su un’idea. Sulla stessa natura delle idee, e dell’elemento di fantasia che costituisce il gioco di ruolo – in contrapposizione con una realtà in cui non tutte le idee sono uguali. Sa di non avere una forma propria, e per quello le adotta tutte.
Di Barbie, non a caso, si è detto tutto e il contrario di tutto, ma quello di cui si parla meno è proprio l’elemento forse più geniale del film. Quel difficile equilibrio tra parodia del concetto di Barbie, come giocattolo per bambini che vive in un mondo dichiaratamente di plastica, e l’ambizione autoriale di Gerwig nel creare uno studio del personaggio completo e commentare con la consueta eleganza sul mondo reale e la situazione quotidiana delle donne. È un modellino di plastica, ma che raffigura il mondo nel quale viviamo.
Come spiega l’apertura, in una simpatica parodia della scena del monolite di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, Barbie rappresenta per le bambine la prima possibilità di fantasticare, tramite il gioco, uno scenario che eluda dall’essere madre e prendersi cura di un bambolotto a forma di neonato. Ma quando si può immaginare di essere tutto, di esistere in tutti gli universi e incarnare qualunque fantasia possibile, diventa difficile capire da quale punto muoversi in relazione a tale fantasia. La risposta giusta si rivela essere l’affetto – a cominciare dalla prima traccia, Pink, cantata da una esilarante Lizzo.
È uno dei momenti di satira più diretti, dato che la cantante di Juice e About Damn Time canta la traccia per due volte, ma con testi diversi. La prima volta è una celebrazione esplicita del mondo rosa “così bello da volerlo bere” di Barbie – un’utopia pastello di feste, uscite con le amiche e spiaggia (un vero e proprio mestiere a Barbieland). La seconda volta, nel momento in cui il timore di Barbie dinnanzi alla morte e alle incertezze della vita inizia a strisciare nella sua mente, la melodia allegra e il sound disco che tutti associano tanto a Lizzo quanto a Barbie rimangono, ma il testo diventa macabro e minaccioso.
Chi preferisse un humor nero più sottile potrebbe trovarlo in Dance The Night, che a prima vista pare una canzone di Dua Lipa come tante, uscita in ritardo da Future Nostalgia. Chi ha ascoltato Future Nostalgia e ha letto bene i testi noterà invece un’oscurità strisciante – immagini di lacrime, che però sono diamanti (quindi è tutto a posto… forse) e di una bellezza che è anche una maschera le cui crepe iniziano ad apparire. È l’illusione di benessere, che quella notte si frantuma anche per Barbie, a creare il fascino macabro della canzone. Una traccia deliberatamente dark, alla Turn Off The Light o The Fame Monster, non avrebbe funzionato. Lo scopo di un giocattolo, di un'idea, anche solo della bellezza – quella di Margot Robbie e della sua recitazione, sulla quale scherza persino la narratrice Judi Dench – è l'astrazione. Dance The Night, come la parabola di Barbie, che a breve uscirà dal suo guscio e vedrà il mondo reale, la sottrae sapientemente pezzo a pezzo.
L’immagine della maschera, stavolta in senso più strettamente carnevalesco, ricompare in un’altra traccia eccellente, Man I Am. Essa viene ad accompagnare uno sfoggio di sessismo patriarcale da parte dei Ken. E come loro, che hanno appena scoperto un mondo – strano, ma forse non troppo – in cui le regole arbitrarie della virilità tradizionale dominano ogni espressione sociale, scimmiotta quei paradigmi e quei rituali fino alla ridicolaggine, con una sorta di lente al grand'angolo in cui il patriarcato, seppur minaccioso, è parimenti buffo. Quello sfoggio di machismo, cavalli e birre ghiacciate lo canta Sam Smith: cantante nonbinary (quindi non uomo), in quella che è, nella sua carriera, solo un’altra maschera che indossa sul palco. Una maschera consapevole, stavolta: il suo non essere uomo permette maggior libertà di movimento nel suo personaggio caricaturale, senza imbarazzo personale e senza scrupoli di ferire o spaventare. Durante un inseguimento si fa avanti invece Charli XCX, con Speed Drive – è un momento intenso, nonostante le gag fisiche dei persecutori, con una cinematografia e una performance da parte di Margot Robbie che comunicano un pericolo autentico. Ma non la traccia: synthpop, vivace, e con al suo picco un sample di Mickey di Toni Basil. I complimenti alla bellezza di Mickey (ovvero di Barbie) diventano una minaccia per la Barbie in fuga, come se nemmeno nei suoi pensieri potesse stare tranquilla.
Anche la decisione di avere Billie Eilish, il cui stile alternativo pare non sposarsi con la celebrazione del divertimento e del rosa alla base del film di Gerwig e del personaggio di Barbie, è ispirata. Come già provato con Lady Bird, il modo di interpretare la femminilità anticonformista di Greta non è mai in opposizione a quella tradizionale – piuttosto in un rapporto di scambio reciproco, di incontro, e di riconoscimento dei necessari punti in comune. Ed è per questo che What Was I Made For, una ballata al pianoforte che ricorda molto l'amata When The Party Is Over, rappresenta la conclusione ideale del film. Soprattutto quando viene combinata con Barbie World, il duetto rap tra Ice Spice e NickI Minaj. Sono entrambi climax, due facce del medesimo: la consapevolezza di non essere niente, perché si è tutto, e la consapevolezza di poter essere tutto – anche un po’ maliziosa, un po’ spiritosa, come le due rapper che la cantano – e godere ogni momento di quel tutto. La presenza di Barbie Girl degli Aqua, necessaria nonostante l'opposizione del loro agente, era necessaria. Nemmeno quella, tuttavia, è salva dalla distorsione, in un sample stridulo e nostalgico. Il vecchio incontra il nuovo, Barbie fa un passo avanti verso il mondo reale, Ken inizia a scoprire sé stesso e una vita tutta sua.
Le canzoni non presenti nel film rappresentano una sorta di universo espanso nei concept del film, mantenendo inalterato quell’equilibrio di omaggio affettuoso e parodia ironica. Si ispirano innanzitutto dagli anni duemila, in un ventaglio dei generi che va dalla ballata alla chitarra stile Hey There Delilah (Hey Blondie di Dominic Fike), al pop-punk (Butterflies di Gayle), persino al k-pop (Barbie Dreams delle Fifty Fifty). Musicalmente scollegate, ma il filo conduttore non manca: è Barbie, ancora una volta, e le identità che le viene permesso di indossare. Perché la sua musica dovrebbe essere da meno?
Non si può, infine, non citare la pomposa e divertente ballata del Ryan Gosling di Ken: unica canzone diegetica del film, e geniale per due motivi. Innanzitutto per il modo con cui gioca con uno slogan – I’m just Ken, sono solo Ken – costruendovi sopra un’intera traccia. Ma, soprattutto, per come incarna la debolezza del personaggio di Ken, condannato dalla propria limitatezza di visione a diventare un satellite di qualcun altro e incapace di rendersi conto della propria limitatezza. È, anche per quello, la canzone più convenzionale per il teatro di musica, ma la sincerità dell’esecuzione la rende efficace. In un mondo di canzoni (e di Barbie) con più di un volto, averne uno soltanto è la debolezza di Ken. Man I Am, con le sue posture, aiutava a nasconderla, ma non c'è più spazio per le maschere. Non allora.
Barbie: the Album è una delle sorprese passate in sordina dell’anno – il che è tutto dire, considerando il film che accompagna. Si spera solo che possa farsi conoscere col tempo, in tutte le sue colorate sfumature. Proprio come Barbie, che esiste in mille forme e spazi, sarà almeno una traccia che rappresenta bene qualcuno. È però nello spazio del loro film che le si conosce meglio, e ci si rende conto di quanto, davvero, sia lunga la visione della sua creatrice. Una visione che accoglie davvero il tutto.