Un salto indietro di oltre venticinque anni per ripercorrere una delle storie più tormentate della storia del rock. E’ indiscutibile che la figura di Kurt Cobain e dei suoi Nirvana abbiano contribuito a essere parte integrante di una narrazione superlativa e abbiano pagato tributo sull’altare dei miti del rock con la morte del suo leader; ma dopo la visione di questo film documentario viene spontaneo rielaborare un nuovo assunto. La dico nuda e cruda senza tanti giri di parole: la vita è un racconto molto più complesso di qualsiasi sceneggiatura, perché ogni suo episodio può essere considerato, se analizzato, di successo o fallimentare, complesso o lineare, di gioia o di sofferenza, allo stesso tempo. Dipende dai punti di vista.
Kurt Cobain nato ad Aberdeen (Washington –USA) in una famiglia appartenente alla working class e le cui origini risalgono alle migrazioni di fine ottocento di Irlandesi, Scozzesi, Olandesi e Tedeschi, è l’icona per eccellenza dei mostri sacri della musica: poeta maledetto, artista, suona rock e muore a ventisette anni come tanti suoi famosi predecessori (Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Brian Jones tra gli altri). Il punto di forza di questa pellicola è il suo montaggio realizzato lasciando semplicemente parlare i fatti, utilizzando documenti originali audio e visivi alternati a sequenze fumettistiche create ad arte per dare unitarietà e continuità al filo logico della narrazione. Il tutto condito ovviamente da una colonna sonora che attinge a piene mani dalla discografia davvero incredibile dei Nirvana. Insomma il bello del film è la sua mancanza di retorica sia in un senso sia nell’altro; il fatto di lasciare scorrere la vita per quello che è senza manie di esaltazione con iperboli estetiche o intenti denigratori per fare dibattito o scandalo. In verità le due cose che mi hanno colpito di più sono state da una parte la potenza comunicativa ed evocativa del sound nirvana, dall’altra l’umanità profonda trasmessa dai dettagli di una vita che spesso ricordiamo solo nei suoi aspetti pubblici ed esaltanti.
La musica dei Nirvana, a distanza appunto di oltre un quarto di secolo, è ancora attualissima, viva, dirompente; ma soprattutto ha un’espressività che spazzerebbe via ancora oggi gran parte dei prodotti musicali revivalistici di ultima uscita. E’ proprio vero quello che dice Cobain in uno stralcio d’intervista ripresa e gettata nella ricostruzione documentaristica del film. Diceva pressappoco così: “Non servono le parole per commentare la musica, (la loro musica). Basta già la musica per parlare di se stessa!”.
La vita di Cobain è stata elettrizzante, sofferta, grandiosa o meschina, ma in ultima analisi una vita normale. Mi spiego: una vita deformata dai media e dal successo, ma in realtà molto più lineare di quanto si pensasse. E’ vero il divorzio dei genitori, la tossicodipendenza dall’eroina, il rapporto strampalato e difficile prima con la famiglia, poi con la moglie Courtney Love sono tutti elementi di causa-effetto non proprio “normali” in una vita “qualsiasi”. Ma c’è un però! Da una vita da rocker non si può proprio pretendere un’esistenza abitudinaria, ma Cobain era veramente spaventato per non dire irritato da una vita stravolta dalla notorietà. Lui non voleva fare parte del gioco, non voleva essere portavoce di alcunché; già a malapena sopportava se stesso. La sua apatia derivava dal vivere una vita che tanti gli invidiavano, ma che lui non sentiva sua e che soprattutto riteneva poco autentica. Se vediamo le immagini di lui a due anni e poi adolescente, della figlia Frances neonata o al compimento del primo anno di vita, le foto sequenze e i filmati della vita con la moglie si percepisce forte un senso di umanità che rende universali anche i suoi sentimenti. Kurt è un bambino che soffre la crisi famigliare e la separazione in tenera età, che da grande diventa ribelle perché si sente rifiutato, che dice non voglio lasciare questo mondo prima di aver provato l’ebbrezza di una scopata come qualsiasi suo coetaneo. Ma alla fine anche lui come tutti vuole fortemente una famiglia, una ragazza, dei figli cui garantire tutto l’amore di cui lui si è sempre sentito in credito. Gli mancava la tanto bistrattata (ai più) normalità. Lo stereotipo del ribelle per antonomasia viene così messo a nudo in tutti i sensi, perché lui prima di diventare un morto famoso è stato tutt’altro: un bambino vivace, un ragazzo in crisi adolescenziale, un marito innamorato e un papà tenero che avrebbe messo da parte anche il rock ‘n roll e la fama di fronte al sorriso e agli occhioni del proprio figlio. Qualcuno dice che nei momenti di crisi vale sempre la pena di dire la verità; per lui era vitale! La figlia ha prodotto il film, ma avrebbe voluto avere solo un padre in vita e per sé; non un feticcio per gli altri. Profondamente intimo e super consigliato!