Ennio Rega: Interview sur 11/10/2011

Posté le: 11/10/2011


Ennio Rega non può certo definirsi un cantautore prolifico se dal 1994, anno di pubblicazione di “Due passi nell’anima del sorcio” a questo 2011, che ha visto l’uscita del nuovo disco “Arrivederci Italia”, ha pubblicato in tutto solo cinque dischi, di cui tre per altro concentrati in questi ultimi cinque anni. Segno forse, che scrive solo quando sente realmente la necessità di farlo e, soprattutto, che per lui lo scrivere in questi ultimi anni è diventato quasi un’urgenza, il desiderio vivo di dire la propria sul mondo circostante, su questo paese che gira ma al contrario. Ci ha così donato, ancora una volta, la sua personalissima visione, confermando che io suo modo di fare musica resta difficilmente catalogabile, mai omologabile, prezioso, ma vediamo cosa ha voluto davvero dirci con la sua ultima fatica.

Nella prima traccia dell’album “Sbriciolo i corvi” canti “Sogno un’ondata di sensibilità che si rovesci sulla società / Trascini tutti nei sentimenti / frugando al di sotto quest’Italia di cafoni e grosse balle / giardinetti adibiti a stalle”. Come deve essere allora considerato questo “Arrivederci Italia”, come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? L’arrivederci un’amara resa o pur sempre meglio che un addio?

Scrivo alla mia maniera ciò che si sa ma non si dice, mai per una resa mai per un addio. In questa Italia di cafoni arricchiti e poveracci la mia creatività sopravvive tra solitudine e dipendenza: “Sbriciolo ai corvi e mi lecco il cucchiaino come un cane lecca la mano del padrone…”. Quando guardo le cose intorno non butto l’occhio mai al centro, l’ispirazione arriva sempre di sbieco. Una verifica della realtà così, solo ipotizzata, sfugge al rischio dei luoghi comuni. L’arrivederci? Non è un giudizio morale. Saluto la “mia” Italia perdente.

In “Il più labile dei dati” canti un’immagine “io non spezzo cuori / continuo a picchiare a una casa chiusa dal di fuori”, che secondo me racchiude in maniera esemplare il tuo modo di essere. Cosa puoi aggiungere?

Credo che la metafisica ci avvicini alla realtà, chi dice che è un “inganno” sbaglia. Detesto la furbizia e la praticità del vivere e inseguo la realtà. Cerco “nel suo rovescio dato per scontato” il senso della vita. Un gigante “folle” genio nel 1882 diceva “Dio è morto”. Nietzsche, era troppo avanti, scriveva nella Gaia Scienza, circa 130 anni fa: “ Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?”. Vedi io non ho alternative al continuare “… a picchiare a una casa chiusa dal di fuori” . Questa terra che amo, così tragicamente mediocre, è l’unica casa che ho e che amo. Non potrei averne un’altra.

Un brano manifesto di questa tua nuova fatica è senza dubbio “Italia irrilevante”, una fotografia desolante della nostra Italia che ti fa dire “L’Italia nazione è un’ipocrisia”. Non penso certo che sia una svolta in chiave “padana” bensì la logica conseguenza di quel tuo guardare il paese con quel realismo che ti porta poi a concludere “Arrivederci Italia sottoterra / le radici muovono le dita lentamente tra milioni di vermi /corruzioni ipocrisie arrancano nelle retrovie di un’ignoranza che ha smesso di divertirci”. Non c’è più alcuna speranza?

La speranza? E’ un impegno, non è aleatoria. Tutto rinasce nel contenuto del ragionamento su questioni di esistenza, infatuato com’è l’uomo del suo essere al centro della filosofia. Non sono io a credere che l’Italia nazione sia un’ipocrisia, al contrario rilevo quanto sia paradossale che proprio i poveracci nelle borgate, non sentendosi più rappresentati, oggi la pensino come quelli della Lega. Nel brano cito quattro quartieri popolari: lo Zen a Palermo, Scampia a Napoli, Corviale a Roma, Gallaratese a Milano, dove un tempo trovavi una sorta di spiazzante positiva “diversità”. I media, negli ultimi trent’anni, si sono lavorati l’intelligenza del cosiddetto popolino, provocando un’ondata di recrudescenza razzista e qualunquista.

Spesso le tue canzoni rivolgono l’attenzione a personaggi che vivono ai margini della società. E’ il caso di “Giovannino” il muratore che s’innamora di una prostituta polacca e il cui amore finirà tragicamente, dei figli della via larga descritti in “Ballata della via larga” o ancora dello sfortunato protagonista del brano “Lo sciancato”. Sembrano in un certo senso personaggi usciti dal mondo proletario tanto caro a Pasolini, ma quanto è cambiata l’Italia da allora o non è cambiata per nulla?

E’ necessario raccontare una storia. In un paesino nell’entroterra del Cilento, sulla via “larga” (chiamata così per differenziarla dai due “stretti” vicoli paralleli) c’era negli anni cinquanta, al piano terra di un fabbricato, un carcere mandamentale diretto da mio padre, lì sono nato io, al piano di sopra. Nella via larga non c’è mai stato un proletariato, eravamo figli d’impiegati, bottegai, carabinieri e artigiani che correvano tra suore, muli e “scemi sulla sella” e circhi, giostre, ambulanti impagliasedie, mescolati meravigliosamente agli zingari dei vicoli “stretti”. Non eravamo i borgatari di Pasolini, molto più fortunati avevamo ricevuto un’educazione di livello alto e finalizzata all’amore per tutti, al rispetto di ogni diversità, giocavamo con gli zingari e i figli delle persone più umili. Qui mi fermo e ti chiedo: cos’è la civiltà se non questo. Quell’Italia era già morta allora, non faceva storia, erano gli ultimi palpiti di una meravigliosa civiltà. I ragazzi di vita di Pasolini sulla strada non ci sono più, li trovi nelle mille finzioni degli studi televisivi. Non c’è niente di più osceno di una massa omologata, senza più l’orgoglio della propria diversità, che non prova più meraviglia per il mondo.

Anche “La teppa dei marchettari” affronta un mondo alquanto squallido, che vede però coinvolti padri di famiglia, preti, cardinali. Non si salva proprio nessuno tra questo girone dantesco? O forse, in fondo, lì “di straforo è la vita”?

Dovrò rispondere a una tua riflessione su un mio “verso fantasma”, scritto e non cantato. “Di straforo è la vita” perché la mancanza di senso di certe realtà è proprio la loro essenza peculiare. Ma insomma nemmeno possiamo girare con lo psicoanalista in tasca. Capire ogni cosa dell’uomo è un’impresa disperata, può essere pensabile una descrizione “adatta”, da cui possa evincersi una particolare “logica”. Qui a livello filosofico il giusto e l’ingiusto non regge perché non c’è alcun preciso riferimento a un qualcosa di concreto, un’idea, un pensiero assoluto. Però quando l’uomo arriva a prostituirsi per poter mangiare, siamo tutti responsabili “nessuno si senta escluso”.

Sarcastica e tremenda al canto di “Cacciateli questi maledetti che invadono le nostre spiagge le nostre vite / chiudetegli l’accesso fateli annegare fin da adesso” è la canzone “La buca”, che affronta uno dei temi più scottanti della nostra attualità, quello dell’immigrazione, quanto può una canzone smuovere le coscienze?

La canzone smuove la coscienza solo di chi la scrive, quello che può fare invece è sorprendere. Neanche la canzone politica, che io apprezzo pur non essendone un appassionato, sposta di una virgola le esistenze. In una canzone ci può essere senso per la vita, la fede, la morale, per ciò che è importante, ma non c’è senso per la “vita quotidiana”. La buca parla dell’indifferenza della Roma di oggi, che come dicevo non può essere conosciuta da una canzone ma solo “pensata”.

Altri versi che mi hanno colpito sono questi “Io cerco di dire ciò che è impossibile dire / parlare di ciò che non riesco a definire gloria per l’eternità / così è e continuerà” tratti dall’autobiografica “Io Lino e Lia”. E’ un programma d’intenti dal quale non sgarrare mai? Allora come la mettiamo con “io dico /ma che c’entra puttana nella musica eh … ma allora …”?

Non ho voglia di sgarrare, peraltro mi fa schifo fare la puttana, guarda Lia: “dice ciò che non fa e fa ciò che non dirà / Lino dice ciò che non pensa e pensa ciò che non dirà…”. Non do un giudizio etico ma un giudizio di valore. Dell’intelletto umano nulla è in vendita. Così come virtù e vizi si riferiscono ad azioni giuste o sbagliate anche l’esistenza di mondi non corrotti dovrebbe essere l’alternativa all’”Italia clericale puttaniera”.

Il disco termina con un altro brano molto autobiografico, “Porcapolka”, che si apre con questi versi “Ho troppo controllo su di me / sulle parole che uso / su ciò che scrivo / su ciò che vedo/ non va bene”, va letto come un auto giudizio negativo? Un mettere le mani avanti di fronte magari a possibili accuse di eccessiva leziosità?

Non ci sono presupposti per temerlo. Il fatto è che un cantautore è sogno, poesia, utopia, lirismo, metafisica tutto tranne che uno scrittore. Intendo dire che non basta avere l’urgenza di raccontare con le parole. Un cantautore è quattro cose insieme, di queste solo una è l’”autore del testo”, le altre tre sono “musica”: compositore, strumentista e cantante. Un artista deve poter liberamente dare voce alle proprie curiosità, e se ha davvero qualcosa da dire non credo ci sia il pericolo di una prevaricazione della musica sulle parole. In “Porcapolka” parlo anche in prima persona per stimolare una riflessione su questo tema poiché credo che nell’ambito musicale ci sia bisogno di maggiore curiosità, di lasciarsi andare fuori dagli schemi. Visto che la discografia in senso “antico” è allo stremo, quello che dico ormai da anni accadrà, da Pausini a Baglioni tutti a casa, la televisione ci prova ancora con i giovanissimi, ma è morta …questi sono tutti in internet.

Prima di finire con una classica domanda di rito, vorrei esprimere l’impressione ricevuta al primissimo ascolto del tuo disco. Dopo essere rimasto sorpreso dalla facilità con cui si è aperta la pellicola che avvolge l’elegante package in cartonato (pregio non indifferente, a volte quest’operazione è un’impresa), ho messo il disco nel lettore e l’ho ascoltato tutto in un fiato. L’impressione ricevuta è stata un po’ come quella di Ulisse che, ormai raggiunta l’ambita meta, si vede aprire l’otre offertogli da Eolo e uscire i venti contrari e si trova così rigettato in mare aperto, senza più speranza. Ecco ho avuto la sensazione che molti brani musicalmente sembrino impazzire, agitarsi, frenare, ripartire verso direzioni continuamente diverse, non c’è il rischio che questo preziosissimo lavoro di arrangiamenti finisca però per penalizzare il punto di forza dell’intero lavoro, ossia i testi?

Capisco a cosa ti riferisci. Tu dici perché impacchettare il tutto con i suoni di uno stile musicale così colto e importante e non interpretare più liberamente il pezzo con l’approccio del cantautore in un impatto “puro”. Guarda se un brano sta in piedi, te lo puoi rigirare in tutte le salse senza che mai crolli. I testi sono lì, le parole scivolano tra gli strumenti e i loro suoni. Ma capisco e posso essere anche d’accordo sullo snellire per portare il senso di una strofa più alla luce. Questo è solo un disco, le canzoni di cui si compone sfuggono al suo formato.

Ecco la domanda di rito, seguirà un tour promozionale di questo “Arrivederci Italia” o sei già rivolto verso nuove mete?

Il disco dal 20 settembre è nei negozi Feltrinelli e Fnac di tutta Italia, ha avuto da subito un’impennata nelle vendite. Segue un tour. Non ho altre mete che suonare, stare sul palco e raccontare le mie storie, condividendole con i musicisti e con il pubblico. Dal vivo proporrò i brani in varie versioni anche grazie a sinergie nate insieme ad artisti che utilizzano altre forme di espressioni.

Ennio Rega
Ennio Rega