Filippo Andreani: Interview 20/04/2015

Posted on: 20/04/2015


E’ da poco uscito il magnifico disco “La prima volta” di Filippo Andreani (disco autoprodotto e distribuito da Mastermusic), dopo l’importante esordio con “La Storia Sbagliata” (un concept album – tra storia e fantasia – sull’incredibile vicenda del Capitano Neri e della staffetta Gianna, partigiani della 52esima Brigata Garibaldi operante sul Lago di Como - Nodo Libri / I Suoni 2010) e il successivo “Scritti con Pablo” (Lucente/Many/ Venus 2011), un po’ i suoi scritti corsari per dirla alla Pasolini. E’ a tutti gli effetti, il suo terzo lavoro ma, come suggerisce il titolo, per vari motivi si potrebbe quasi considerarlo “la prima volta” di Filippo Andreani. Non voglio però anticipare nulla del contenuto di questa intervista, leggetela, credo ne valga davvero la pena, così come vale la pena cercare di portarsi a casa il suo disco, che di così belli e toccanti non capita poi tanto spesso di ascoltarne.

Mi piace solitamente iniziare le interviste partendo dalla copertina del disco, perché è un po' come fosse il biglietto da visita di un nuovo progetto musicale. Com'è stata concepita e perché hai voluto intitolare il disco "La prima volta"?

Perché è "la prima volta" che, artisticamente parlando, riesco a essere davvero me stesso. Il che non è affatto scontato. Almeno non lo è stato per me. A un certo punto mi sono accorto che - per paura di mostrarmi per intero - ero finito ad assomigliare a tutti tranne che a me stesso. Mi è costato molto ammettermelo ... ma è stato bello "tornare a casa" e poi questo è stato un anno di tante prime volte: non ultima, è stata la prima volta che qualcuno mi ha chiamato papà. La copertina è stata disegnata da un amico tatuatore di Roma ed è ispirata a "Il coraggio del pettirosso" di Maggiani. Quel coraggio che ho ritrovato, per la prima volta dopo tanto tempo.

Beh, direi che c'è un cambio di registro notevole rispetto ai tuoi lavori precedenti, sinteticamente potrei dire che s'è persa un po' di quella cantautoralità un po' ingessata e a tratti autoreferenziale che sa di stantio per dare aria e ossigeno alla musicalità, sia attraverso sonorità più elettriche sia attraverso un cantato più libero, non so se condividi questa mia impressione.

Condivido in pieno, però non rinnego niente di quello che ho fatto. Sai, troppe volte ci si sofferma sulla forma ... parlo soprattutto della critica ... in molti hanno sottolineato i difetti di cui parli riferendoti ai miei lavori passati, mentre nessuno o quasi si è soffermato sulla sostanza. Cosi, le storie della Gianna e del Neri, quella di Aldo Bianzino, di Licia Pinelli e di altri, sono rimaste dov'erano prima (nel dimenticatoio), mentre tutti erano occupati a darmi dell'emulatore di un tale di Genova. Questo non mi è piaciuto granché. Ma tant'è. In ogni caso, io stesso ho voluto discostarmi da quel tipo di sonorità ... del resto ci sarà un motivo se in casa ho una gigantografia di Strummer e non di De Andrè. La mia vita l'ho spesa con i Clash nelle orecchie, non con “Anime Salve”.

In Italia, se tu noti, si finisce sempre per essere accostati musicalmente o a De Andrè o a Paolo Conte così poi, come dici giustamente tu, spesso si perdono di vista i contenuti e qui, in questo nuovo lavoro ci sono davvero storie e personaggi raccontate con grandissimo senso poetico. Cito due canzoni "Gigi Meroni" e "Numero nove", due gioielli per scrittura, solo apparentemente dedicate al mondo del calcio ma lascio a te la parola ...

Nascono in due momenti differenti della mia vita. Comincio dal Borgo: l'ho conosciuto all'Ospedale, dove per disgrazia era il compagno di stanza di mio papà, anche lui affetto da SLA. Poi il papà se ne va su una nuvola e il Borgo resta. Lo ritrovo allo stadio Sinigaglia. Io e altri amici della Curva eravamo in campo con lui, con le nostre bandiere e i nostri sorrisi ingessati. Mica potevamo far vedere che dentro piangevamo come bambini. Quando siamo arrivati sotto il nostro Settore, Stefano ha guardato l'inferriata. Ero li, l'ho visto. In quel punto si era appeso per la storica esultanza dopo il gol contro il Milan. Parlo degli anni ottanta. Voleva risalirci. A quel punto vaffanculo alla decenza: mi sono messo a piangere come un bambino. Poi sono tornato a casa e ho scritto quella canzone. Per Gigi è stato diverso, meno traumatico senz'altro: la sua figura mi ha affascinato sin da bambino. E poi ho conosciuto quest’amore incredibile per la bionda del Luna Park, Cristiana. E poi c'è Como, Genova, Torino. Il lago, il porto, la fabbrica delle auto. E poi c'è il Toro, che nella mia testa non è una squadra di calcio: è una poesia, è il popolo che ride e che piange e, i torinisti, a dir la verità, hanno sempre pianto tanto proprio quando stavano per ridere. Da Mazzola a Meroni.

E' vero sono due canzoni diversissime fra loro ma altrettanto toccanti, bellissime. Altrettanto emozionante e portatrice di lacrime credo sia "Lettera da Litaliano", dedicata a Piero Ciampi. A lui tantissimi hanno dedicato canzoni ma non credo proprio che tu l'abbia scritta per moda, com'è nata?

Da “Adius”. Uno per scrivere “Adius” non deve essere solo disperato, deve avere il cuore devastato, non nel senso di incapace di amare, ma nel senso di definitivamente rassegnato a non essere amato. Il che, credo, deve essere molto peggio.

Ne è nata una canzone d'amore struggente, un canto a quell'amore che avrebbe potuto essere, ma non è mai stato. E' cosi?

Si, proprio cosi. E per introdurla ho trovato una vecchia registrazione televisiva di Ciampi, nella quale diceva un'altra cosa terribile: "Per capire cos'è la solitudine, bisogna essere stati in due". Forse è banale ma quel verbo al passato rivela un tormento vero, reale, inguaribile, senza alternativa.

Perché hai voluto aprire il disco con “Canzone per Delmo” e perché una canzone dedicata ad Adelmo Cervi?

Quella canzone è stata il regalo per i settanta anni di Adelmo. La sua storia la conosciamo tutti, in pochi conoscono invece la luce che ha negli occhi: una luce triste, da bambino abbandonato. Adelmo mi ha fin da subito ispirato tenerezza e quella è una canzone che parla soprattutto di questo: della tenerezza mancata tra un padre e il suo bimbo.

Questa canzone ti vede duettare con il grande Marino Severini dei Gang, ma non è assolutamente l’unica collaborazione in questo disco vero? Dirò un altro nome tra i tanti, Sigaro della Banda Bassotti che ha prestato la sua voce particolarissima in “E Roma è il mare”, un’altra canzone meravigliosa che nasce sempre dai ricordi. Raccontami la genesi di questa canzone che, forse, non è solo una canzone di ricordi ma un’esperienza di vita che prosegue giorno per giorno? No?

Prosegue, si: per mia fortuna continuo ad avere gli stessi cattivi maestri e le stesse cattive frequentazioni. Roma, per uno che abita a Valmorea, è l’oceano. Io in quell’oceano ci ho nuotato insieme ai Bassotti, agli All Reds, ai libri di Valerio Marchi, alle storie brutte di Verbano e di Biagetti. Mi sento di appartenere a quella parte di oceano. Quella parte profonda in cui ogni giorno nuotano gli amici miei.

La memoria ha un peso notevolissimo in questo disco così come l’ha avuto anche nei dischi precedenti. Mi viene in mente un’altra grande figura d’uomo, prima ancora che di calcio, che appunto ricordi con versi di dolcissima poesia, mi riferisco a Gianni Brera e alla canzone che gli hai dedicato “Che la terra ti sia lieve”. Quanto credi che manchi oggi una figura come quella di Gianni in termini di valori? Soprattutto a uno come te che, giusto per citare i tuoi versi in “E Roma è il mare”, canti “Tra Mazzola e Rivera, avrei scelto Vendrame”.

Guarda, l’ha spiegato bene Gianni Mura, coniando l’espressione “senzabrera” per descrivere quelli che, come noi, ne sentono la grande mancanza. Brera manca. È un dato di fatto per chiunque viva lo sport come fatica e passione; ma anche per chiunque continui a sostenere che la zuppa pavese – se fatta bene – vale un’aragosta. In definitiva, manca a chiunque si ostini a innamorarsi della semplicità. Per fortuna che ha un grande erede e che questo “figlio”, Gianni Mura, abbia preso dal “padre” tutti i migliori pregi.

Un altro contributo molto originale viene da Steno dei Nabat che ti accompagna in “Tito”, qui il protagonista dei ricordi sei tu stesso lungo il corso degli anni, partendo da quando eri bambino e tua madre ti chiamava Tito per finire con il guardare il futuro. Com’è questo bilancio dei tuoi primi quasi quarant’anni, ma soprattutto come vedi il tuo futuro?

Passo molto tempo a pensare a me, a quello che ho fatto, a quello che faccio e a come lo faccio. Il motivo è che mi sono imposto di morire da galantuomo (ce la farò?) e che la galanteria va costruita giorno per giorno, con attenzione. In “Tito” parlo a quel Filippo cui sono solito rivolgermi guardandomi allo specchio. Quanto al futuro … il mio coincide con l’età di mia figlia: è per lei che vivrò altri cento anni. È banale e retorico, ma io sono banale e retorico quando parlo di lei. Mi ha sfasciato il cuore.

Di ricordo in ricordo, c’è un altro personaggio magari sconosciuto ai più ma che ti ha segnato, ne canti insieme a Rob dei Temporal Sluts nella dura “Veloce”, ti va di parlarne?

Angelo Tagliabue all’anagrafe; Speedy Angel nelle note dei dischi dei Potage. Una persona davvero perbene, un semplice, uno vero. Un uomo entusiasta, soprattutto. “Veloce” è una lettera per lui, che è andato via troppo presto. Speedy era … è un esempio del vecchio adagio che loro stessi (i Potage) cantano in una loro canzone, “Vecchi Punk Rockers”: non importa saper suonare, ciò che conta è avere qualcosa da dire. Un atteggiamento che adoro e di cui io stesso faccio la mia bandiera.

Il disco però non guarda solo a ciò che è stato, anzi si chiude con una dolcissima e poetica canzone che ci parla soprattutto di futuro, di un’intera vita da vivere davanti. Il titolo è una data che penso, ricorderai per sempre nella tua vita, il giorno in cui è nata Annarella. Trovo adorabile questa tua canzone a partire dalla citazione di una delle più belle canzoni di Pierangelo Bertoli, non voglio aggiungere altro, vorrei che fossi tu a parlare di questa canzone.

Grande Fabio che l’hai colta! “Dal vero” è davvero una grande canzone. Quella canzone è stata scritta fuori dalla sala parto, prima di entrare per accogliere la mia piccolina. Ero a Varese (che per un comasco sfegatato come me equivale a una trasferta importante) a giocare quel mio “derby da ospedale”, e in quel momento mi sentivo accanto alla mia mamma (“che ha trovato un porto dopo la tempesta”), mio papà (“che nuotava al largo e se l’è preso il mare”), mia moglie (“che se dovessi reinventarla la farei dal vero”). Insomma, tutti lì ad aspettare che Annarella arrivasse. Poi, alle 22.22 precise del 30.01.2014 eccola tra le mie braccia. Uno a zero per noi, rete della piccola Andreani!

Vorrei chiudere con una riflessione, s’è detto più volte che questo disco è un disco di ricordi, di pensieri legate a persone che hanno lasciato un segno. Un disco che per altro sta davvero raccogliendo notevoli consensi di critica. Quanto è importante non dimenticare?

Non credo sia importante, quanto necessario. Gli alberi che non hanno radici cadono al primo vento. Per quanto mi riguarda la Storia è maestra di vita. Senza, non saprei in che direzione camminare.

Nel ringraziarti per la grande disponibilità dimostratami, perché so dei tuoi molteplici impegni poiché purtroppo come tanti bravissimi artisti non hai il privilegio di vivere della tua arte, vorrei solo chiudere con una battuta. La prossima volta che ti attingerai a scrivere un nuovo disco non farmi più pianger così perché se no ti addebiterò il costo dei fazzoletti di carta.

Sono io che ti ringrazio del tuo tempo. Quanto ai fazzoletti, non usarli: fai vedere a tutti, con orgoglio, che hai pianto. Siamo circondati da uomini che non lo fanno mai. Poveretti.

Filippo Andreani
Filippo Andreani