Ugo Cattabiani
Il cortigiano
Allegoria dell’artista contemporaneo, in cui impegno e leggerezza convivono
“‘Il cortigiano’, allegoria dell'artista, è un atto ideale di liberazione dal Potere.
Il Potere è inteso dall'autore come forza ineludibile che impedisce la realizzazione dell'individuo, lo riduce a cifra, a destinatario forzato di "rappresentanza", di iniziative in suo nome, lo trascina nel vortice del conformismo e della spersonalizzazione. Quindi non solo potere "politico" ma anche potere di condizionamento di un'epoca intera, del presente, che martella incessantemente sul tasto dell'oggi e uccide ogni prospettiva storica - ossia, di giudizio.”
Per Baldassarre Castiglione il cortigiano è un nobile che non si accontenta dell’attributo originario del cavaliere e della sua professione militare: per poter svolgere in modo adeguato e con successo la propria "professione", questo nuovo gentiluomo (parliamo di un trattato del 1528) deve partecipare alla vita culturale contemporanea, deve dimostrarsi informato ed esperto. Castiglione si rifà al concetto oraziano di mediocritas - categoria stilistica e comportamentale - intesa come laboriosa conquista di un equilibrio difficile, di un'eleganza che rifugge dall’affettazione e che nasconde lo sforzo.
Nel 2011 - al netto della mutazione dei costumi, della mentalità e dei sistemi di governo, ma non della prassi clientelare - il cortigiano non può accontentarsi di “soggiornare a corte piacendo al principe”. Se è vero che la categoria dell’utile e del mondano, a 500 anni di distanza, si è rafforzata, allora la missione dell’artista non può che essere quella di una rivolta creativa, una lotta per spezzare le catene della condizione di cortigiano”.
Quanto ho voluto riportare, integralmente, non è tratto dal libretto, per altro ben curato, del disco di Ugo Cattabiani, bensì è tratto dalla pagina di presentazione del disco sul sito della neonata Rigoletto Records.
Perché sono voluto partire da qui? Perché la musica forse più che altri mezzi espressivi è sempre difficile da spiegare a parole e a volte i comunicati stampa o le note informative pubblicate su un’opera possono indurre a facili illusioni, presagire difficili ascolti, insomma possono anche condurre fuori strada.
Perché affermo questo? Perché leggendo la suddetta presentazione, m’immaginerei un disco con una forte valenza sociopolitica, magari uno di quei mattoni che una volta ascoltati, ti dici: si bel disco impegnato, però adesso lo ripongo nella sua custodia e lo archivio per bene.
Invece? Invece no, perché Ugo Cattabiani, giovane trentaquattrenne musicista parmense, che ha militato in varie formazioni ed è stato il leader degli Ottobre Scirocco, ha scelto per il suo disco d’esordio come solista, un linguaggio musicale che affonda nel blues, in cui però troviamo anche la canzone d’autore, il country folk, lo swing, la ricercata melodia, ne è uscito così un prodotto godibilissimo di presa immediata, che non necessita di ascolti su ascolti per iniziare a farsi apprezzare.
Ne è un esempio, il brano di apertura “Sanpa blues” che musicalmente suona un po’ country blues e mi ricorda un po’ lo stile di “Certi momenti” di Pierangelo Bertoli, si parla di un disilluso post serata musicale, anzi il seguito di un concorso musicale, ne riporto l’accurata ambientazione “Nel buio rivedo l’Appennino / come una linea che dondola nel cielo / inseguo l’aroma dei ricordi/ tra i vetri sporchi e raffiche di vino / la sete è un baio corridore che a briglia sciolta continuo ad incitar”, cui fa seguito un altrettanto suggestivo finale “ma il sole s’insinua nel cortile / e in girotondo comincia a vorticar / in mezzo ai fili curvi di rugiada / tra locandine strappate sulla strada / e l’orizzonte risplende tra le piante ed il futuro ormai non è importante”.
Discorso analogo vale anche per “La locanda del Trinchetto”, in cui il clarinetto di Alessandro Mori riesce a disegnare mirabolanti acrobazie e la scelta swing fa si che una sbornia colossale si possa anche tingere di poesia.
Totalmente diversa è “Lo straniero”, che ha un’atmosfera rock psichedelica, direi noir, sottolineata anche dai versi “Nel cielo di un sogno d’infanzia / ti scordi chi sei / papaveri bianchi di ghiaccio / che non coglierai” e più oltre “Il piccolo fuoco di paglia / di un amore comprato / per consolare il corpo / del suo viaggio sbagliato / ma la notte è un oceano di spilli / un cemento di volti spietati”.
I cambi stilistici sono repentini, come con la canzone “Dentro una grande città”, che respira aria di rock anglosassone, venato di malinconica, di nostalgia verso un’adolescenza ormai lontana come sembrano suggerire anche le prime immagini “Mai più ritroveremo il senso di / sorprenderci a ridere / nudi con l’ansia di conoscerci / toccandoci sempre più giù / la sabbia sui lettini duri ruvidi / sperando di nasconderci”.
Anche in “Dove sei finita Penny Lane”, con quel richiamo alla famosa canzone sull’infanzia dei Beatles, c’è molta nostalgia, la canzone, vocalmente, è condivisa con Francesco Pelosi, leggero british anni’ 60.
“Non credere che vada bene così” è anch’essa una canzone post, post amore ormai concluso, in stile country folk sembra scorrere placida come un fiume di pianura, ma il finale serba un’amara sorpresa “porterò con me solo una scheggia di rancore / per non avermi fatto confessare / che il mio tempo stringe e tu non lo potrai riempire / ma non credere che vada bene così”.
“La passeggiata” è un monologo recitato su un fondale musicale scuro, la canzone sembra incedere lenta, proprio come può esserlo una tranquilla passeggiata, poi ecco la novità, un altro cantiere, la gente che guardava dalle finestre, qualcosa sembra scomparso, è il ricordo degli anarchici Cieri e Picelli, c’è chi “schedava nell’unico file di sistema / la silhouette dei sostenitori / condannando all’ostracismo i biechi perplessi / otri gonfiati di obiezioni / al nuovo che avanza / che non risparmia gli oppositori / Nessuno sorrise, stringendo la mano del cortigiano”, ma è forse solo un brutto sogno “Nei pressi di un’osteria / il vino rese Ardito un timido ubriaco”.
Elettrica e accorata, la successiva traccia “I cortigiani” è tanto breve quanto intensa, Ugo canta con voce sporca questi versi “Cortigiani, vil razza dannata / per quel prezzo vendeste il mio bene / a voi nulla per l’oro sconviene / ma mia figlia è impagabil tesor / la rendete o se pur disarmata / questa mano per voi forse cruenta / nulla al mondo più l’uomo paventa / se dei figli difende l’onor”. Versi e valori d’altri tempi? In parte, i versi sono del librettista Francesco Maria Piave e la musica è di Giuseppe Verdi, ma i valori restano sempre validi.
“Libri aperti” è, anch’essa, a suo modo, una canzone d’altri tempi, quelli dell’adolescenza, c’è come una grande nostalgia di quei primi goffi approcci amorosi “La tua amica dice che dovresti frequentare / il suo corso medioevale di regine unne / via, mandala via / chiudiamoci a chiave in camera tua / via, rispondile che si studia abbracciati la filosofia”.
Con “Falso” si torna al blues, di quelli tosti e molto cadenzati, il testo allude, neppure troppo celatamente, a un despota “falso che impone alle reti ducali / cravatta gialla, cravatta azzurra / falso che odia la plebe in suburra / donne affittate, mogli scartate” fino al duro attacco finale “Vende la casa di ogni fratello / e per le mani ha sempre un u”.
E’ un crescendo d’intensità, arriva “Giullare attento!”, un breve monito, ormai tardivo, per il giullare che ha osato troppo “Mentre il sire accende il rogo tu lo sfidi / mentre i tuoi sonagli colano, sorridi / mentre i tuoi colori sfumano”, musicalmente sembra quasi un brano anni ’70, ipnotico, psichedelico.
“Il colombre” è invece un canto pieno di nostalgia e un po’ sognante, il titolo penso si riferisca al famoso racconto di Dino Buzzati, ma la presenza di un ufficiale di nome Achab sembra evocare un’altra storia di mare, “Moby Dick”, ma forse tutta la messa in scena è solo una scusa per una riflessione sull’esistenza e il viaggio per mare è solo una metafora della vita.
C’è un’armonica, poi entra una chitarra acustica, inizia il canto, mi sembrano parole e melodia che già mi appartengono e non mi sbaglio, “Un mattino di troppo” è, infatti, l’adattamento in italiano di “One too many mornings” di Bob Dylan.
Un pianoforte ci introduce quindi nell’ultima traccia “Ogni cosa finisce”, l’atmosfera è di quelle un po’ tristi, proprio come quando qualcosa di bello sta per finirsi e già appartiene al passato “Giorni che scorrono uguali ad altri mai vissuti / l’aria profuma di passato / stanchi gli sguardi velati di chi non può sognare / scende la sera senza baci”.
Ugo Cattabiani, con questo “Cortigiani” conferma ciò che di buono aveva già dimostrato nel precedente progetto firmato “Ottobre Scirocco”, anzi forse compie un passo in avanti, affrancandosi dal disco di genere, perché questa sua nuova fatica non può essere liquidata come un buon disco blues, piuttosto rappresenta una sua personalissima via verso la canzone d’autore più impegnata, senza per questo dimenticare il proprio amore per il blues, il folk americano, il country.
Avercene di buoni tentativi così!
Ugo Cattabiani
Il cortigiano
Tracks:
- 1) Sanpa blues
- 2) La locanda del trinchetto
- 3) Lo straniero
- 4) Dentro una grande città
- 5) Dove sei finita Penny Lane
- 6) Non credere che vada bene così
- 7) La passeggiata
- 8) Cortigiani
- 9) I libri aperti
- 10) Falso
- 11) Giullare, attento!
- 12) Il colombre
- 13) Un mattino di troppo
- 14) Ogni cosa che finisce
Renseignements pris à partir du disque
Ugo Cattabiani: voce, chitarra acustica (1), lap steel (1), chitarre (2, 3, 4, 5), organo (4), cori (5)
Vittorio Navarra: basso elettrico (1, 2, 3, 4, 5)
Thierry Binelli: batteria (1, 2, 3, 4, 5), cembalo (3, 4)
Rocco Rosignoli: violino (1)
Domenico Maisto: pianoforte (1), organo (1), piano elettrico (2)
Nik Gambara: chitarra acustica (1)
Andrea “Mr. Trebs” Trevisan: armonica (1)
Alessandro Mori: clarinetto (2)
Paolo Franceschi: organo (3), synth (5)
Francesco Pelosi: voce (5), cori (5)
Prodotto da Ugo Cattabiani e Nik Gambara
Registrato e mixato da Nik Gambara presso lo studio Bd.C. di Parma
Foto copertina: Sara Montali
Foto retro cover: marco Olivotto
Foto libretto: Leonardo Barbarini (tranne pag. 8-9 di Cecilia Vecchi)
Grafica e Artwork: Leonardo Barbarini