2017 – Suoni e segni dei tempi

Pubblicato il 16/01/2018

Topic: Musica

Breve saggio a cura di Claudio Milano aka NichelOdeon/InSonar

Parlare di musica oggi è come camminare sulle macerie di un tempo senza storia.

Esiste la musica di fruizione ed è quella che governa gli ascolti di tutti, una musica che non può essere evitata in alcun modo, perché presente ovunque (bar, metropolitane, supermarket e non puoi chiedere a nessuno “spegni per favore”) e diventata colonna sonora delle vite della totalità della gente, in modo consenziente o meno. Il valore di questa musica è infantilmente legato all'apparire (se un musicista, non è sui media per un anno o due, è un fallito, non esiste, come per un neonato, la mamma che si allontana, smette di essere), alla presenza costante, legata anche a fattori extra musicali (vita personale, reale o inventata per creare gossip). Mai registrati così tanti suicidi, o improvvise morti per malattie di creativi del suono (bipolarismo, abusi, disturbi alimentari, depressioni che conducono a mali non curabili), giovani o meno, come negli ultimi anni, lo scotto che bisogna pagare per reggere un simile stress emotivo, che esula dalla creazione, ma anche dal semplice professionismo. Il peso dell'individuo, è strettamente economico e la gente, nella sua quasi totalità, è invasata di questa dicotomia. La carenza di tempo nella vita comune, per poter ricercare tra quanto internet, o le riviste musicali, possono quotidianamente favorire ed un oggettivo impigrimento di massa (lavoro, palestra, ritorno a casa col cane o il gatto, chat, individuazione di una lei o un lui con cui uscire nel fine settimana – qualora famiglia non dovesse sussistere – letto e poi, tutto daccapo), hanno ridotto a zero la possibilità di coltivare interessi.
E' cambiato profondamente il modo di ascoltarla, la musica, su apparecchi portatili, in formati ipercompressi e di bassissima qualità audio, cosa che porta le etichette discografiche ad appiattire le dinamiche del suono, ammazzandolo a priori e rendendo ancora più necessario un sentire “facile”, utile per camminare, stirare, fare la spesa, andare in auto. Si sente, appunto, ma non si ascolta più. Chi è più giovane, dà peso ai testi, anche se ormai il conformismo che la musica di colore nata nei ghetti e finita nei talent show, con tanto di lustrini, fa sorridere e si fa dell'ovvietà di un'accozzaglia di luoghi comuni ragliati con voci disfoniche e polipose (moda del momento), una ragione di vita adolescenziale e non. Non cambia molto col cantautorato, anzi. L'indie, poi, è la stessa canzone sentita negli ultimi 30 anni, farcita di qualche suono elettronico, ma stanca di ascoltarsi da sola.
E' accaduto, infine.
La controcultura, è cultura di massa, lo hanno voluto tutti e ce ne dobbiamo fare una ragione.
Per chi non accetta questa realtà, rimane una chance, accettare di essere nerd.
C'è un popolo di Carbonari, che a parlare di ciò che da' piacere al proprio ascolto, viene definito snob a priori. E' un popolo che della storia, si, ha coscienza e che o si muove orgoglioso, consapevole della propria alterità (e dunque spesso, snob, ma di quelli derisi, lo è realmente), oppure ricerca tra miriadi di energie sparse per il mondo, sperando di ascoltare qualcosa che piacere, sia esso fisico o mentale, procuri (perché sempre questo, è alla base di tutto, il piacere, assieme alla consapevolezza e alla conservazione indispensabile della struttura dell'Io su cui si è costruita la propria storia umana ed intellettuale), vedendo i propri passi e quelli dei miti su cui si è fatto affidamento, morire lentamente. E' un popolo che compra ancora i dischi, (talvolta li scarica, in ricerche interminabili sulla rete, divenuta una sorta di cornucopia, al punto da azzerare la volontà di conoscenza, davanti a tanta abbondanza... e pensare che nei '70 c'era chi urlava “cultura gratis” e oggi si siede su un divano a guardare X Factor) li ascolta in religioso silenzio, magari in vinile, che si espone di propria persona, spesso nel fare musica, oltre che nell'ascoltarla e che si ritrova a lavorare, comporre/suonare/cantare musica nel tempo libero e persino dedicarsi a scrivere della musica di altri. E' un destino riservato all'Europa che è convinta di essere agonizzante, ma che in realtà è morta da tempo, senza che nessuno se ne sia accorto.
C'è poi un'altra Europa, quella del Nord, dove la cultura va definendosi oggi, diventando risorsa socio-culturale e su di essa, economicamente si investe. E' lì che il rock estremo, le avanguardie, il jazz, si sviluppano e fanno scuola. C'è anche la Francia, che ha fatto dell'investimento nella musica accademica (classica contemporanea) e nel jazz, un tratto distintivo del proprio essere nazione multietnica. C'è un mondo dove la musica viene fatta per necessità, senza che arrivi altrove, perché magari neanche incisa (e se tale, subito assorbita in un calderone scioccamente new age, indipendentemente dalle energie da essa espresse, siano pure le più demoniache), nell'Asia, nell'Africa e nel Sud America più poveri ed è quella musica, che un giorno ci salverà.
Intanto, l'italiota capitalismo borghese (ma anche i poveracci), è convinto di sfornare meraviglia e a quello si dedica, facendo della cultura del consumo di tutto e del cibo, in particolare (Expo docet), la propria bandiera. Fosse onesto, si toglierebbe di dosso le proprie pellicce sintetiche e abbatterebbe Musei, luoghi d'arte e di culto, per erigere grandi centri commerciali, dove non acquistare, ma mettere sé stesso in vendita al migliore acquirente, nella speranza di sentire il proprio Ego, finalmente più forte.
Non è a questo mondo che scrivo, non ha bisogno di leggere, ma a quei nerd, a cui, umilmente, mi permetto di suggerire, qualche ascolto, tra le migliaia che mi hanno accompagnato lo scorso anno. Ascolti senza alcuna distinzione di genere, in un mondo, a parte, che ormai le barriere ha abbattuto per necessità di nuovo e che suona la musica che prepara ad un decennio, che si presenta come quello delle collaborazioni a largo spettro, per fare della solidarietà, una necessità imprescindibile. A voi, con affetto,
Claudio Milano

CHI SE N'E' ACCORTO? (priorità soniche, su cinque livelli d'ascolto)

1) Alder & AshClutched in the Maw of the World. E' questo il mio disco dell'anno. La distanza tra le sue trame di un post rock, che di rock, ormai nulla ha e quelle della classica contemporanea, è nulla.
I violoncelli dei due musicisti sono suonati da ambedue in un modo tale da essere un unicum, tra i più grandi che le mie orecchie abbiano mai avvicinato, di un pathos e un'evocatività che scava dentro, quanto disegna scenari fatti di bellezza e macerie al contempo. L'elettronica ad esso applicata, è quanto di più avanti nel tempo io abbia ascoltato. L'incipit marziale che deflagra in distorsioni di una potenza inimmaginabile di A Seat Amongst God and His Children è cosa che mette i brividi. Colonne sonore per la fine dei tempi, siano essi, quelli propri, tanto quelli di una civiltà tutta. I glissati di All His Own, the Lord of Naught rubano l'anima, prima che ancora la distorsione, appresso ad un tema che avvicina il Medioriente, prendano largo. Uno dei capolavori degli anni 10, che non possono e non devono essere dimenticati. 10/10
Ascolta Alder & Ash - Clutched in the Maw of the World

02) Si può creare il proprio miglior disco dopo aver generato capolavori che hanno influenzato quasi due decadi? I Godspeed You! Black Emperor, con Luciferian Towers, ce l'hanno fatta. Portano assai altrove la definizione di post-rock, in uno scenario che è aurora boreale pura. Un enorme abduzione luminosa che porta in una dimensione altra. Si è più prossimi ad un astrattismo cosmico, disegnato da geometrie assai precise a da progressioni di un rigore matematico, come trovare nella bellezza del cosmo, la certezza dell'esistenza di un Dio. Non ci è dato sapere, quanto sia stato sovrainciso nella creazione del disco e quanto eseguito in tempo reale. Come sempre sono archi e percussioni a condurre l'organico, ma i fiati rilucono come sfavillio, fino a congiungersi al tutto, in un coro di una valenza universale. Basterebbe l'opening track, Undoing a Luciferian Towers, a far comprendere ad un cieco la bellezza della luce, ma la mestizia di Anthem for no State, è tale da muovere alle lacrime. Capolavoro. 9/10
Ascolta Godspeed You! Black Emperor - Luciferian Towers
 

2B) Science Fiction dei Brand New, è disco di una bellezza rara, ripercorre tra i suoi solchi, l'intera epopea rock abrasiva e lo fa con personalità assoluta, profondità, energia violenta e disperata, di quelle che esplodono, ma lasciano comunque un malore interiore acceso (il ricordo di Husker Du e Nirvana, non può che essere presente, ma la grandezza della band, fa piazza pulita di ogni reminiscenza). Dal vivo, il combo regala show estesi, indimenticabili, paragonabili solo alle grandi esibizioni dei '70. I riff dei brani, tanto se dichiarati, che appena accennati, hanno qualcosa di subliminale e maledettamente depresso. Ciò che sorprende è quanto questo combo suoni musica autentica e lo faccia con uno strumentario, basso, chitarre, batteria, che nella quasi totalità dei casi, non ha davvero più nulla da dire. Straordinari. 9/10
Ascolta Brand New - Science Fiction
 

2C) “Gli anni senza vergogna”, sentenzia senza mezzi termini Rafael Anton Irisarri e non senza motivo. Il suo The Shameless Years, è l'ennesimo, ma non per questo inferiore, anzi, Requiem alla cultura Occidentale tutta (spaventoso Karma Krama, da pelle d'oca). I suoi drones, pregni di dolore, si stagliano nell'animo di chi ascolta e non hanno valore descrittivo, ma di spiritualità assoluta e rara. La sua poetica, ha da tempo superato in termini di attualità, quella pur valida del grande Ben Frost e di Fennesz (o di Richard A Ingram, sospesa tra spazialità extraterrestre ed emozionalità cupissima), ha legame possibile solo con l'urlo senza pace che fu del primissimo Burzum. Con lui, il genere si avvicina all'elettronica classica contemporanea di un Michele Tadini, ma la supera di slancio per capacità emotiva. Tutti annunciano un'Apocalisse senza rivelazione alcuna, ma Irisarri, dà voce a chi ad essa soccombe, quotidianamente. La capacità di un alieno, tra i pochi romantici decadenti in vita, di guardarsi laddove nessuno ha osato e il tacito urlo di chi vede uomo e natura non essere più stessa cosa, ma in una guerra, dall'esito, oggi più che mai, ovvio. 9/10
Ascolta Rafael Anton Irisarri - The Shameless Years
 

2D) Samuel Strouk, presenta al mondo, in prima assoluta, il 27 Novembre 2017, a Parigi, al Café de la Danse, il suo nuovo album Silent Walk, opera per quintetto esteuropeo: la sua chitarra inconfondibile, Vincent Peirani al bandoneon, Francois Salque, al violoncello, Florent Pujulia, al clarinetto, Diego Imbert, al contrabbasso. E' opera che unisce il dichiarato amore per Astor Piazzolla, armonizzazioni jazzistiche, chitarra che si fa ritmicamente rock, musica esteuropea e arrangiamenti di una bellezza cristallina, che sposano la musica classica. L'amalgama è di una perfezione magistrale e tale da meritare un grandissimo plauso. Come è possibile immaginare, la chitarra del compositore (ora acustica, a tratti elettrica), ha un ruolo principe nell'imbastire i temi, che grazie al violoncello di Salque, di un suono magnifico, avvicinano una melanconia rara e profonda. Non si tratta di musica fatta di virtuosismi, per quanto ogni interprete, mostri qualità tecniche di assoluto prestigio (a Salque il più grande encomio) e alcuni passaggi raggiungano il parossismo puro, ogni tema viene esposto in modo quieto e minimale, per poi raggiungere un climax turbolento e di una passionalità assai coinvolgente, tale da strappare applausi anche davanti ad un impianto stereo. Musica solo apparentemente “facile”, ma di una scrittura estremamente complessa. Emozionante. 9/10
Ascolta Samuel Strouk - Silent Walk
 

3) Dopo il magnifico Harpness di Raoul Moretti, dello scorso anno, quest'anno, il disco italiano a cui va il mio più grande plauso è quello di Stefano Giannotti e Salvo Lazzara, La Vostra Ansia di Orizzonte. Sulle intuizioni minimali di Lazzara, Giannotti interviene con la capacità di autentico alchimista sonico, a partire dalla traccia iniziale, dove un tenue strumentale chitarristico si sgrana progressivamente in onde radio, fino a rallentare il proprio percorso in cemento. Musica per Radio Arte, percorso a cui Giannotti ha dedicato anni della propria esperienza da compositore in Germania. E' così anche su Onde di Terra, dove a partire da un basso, sovrapposizioni di noises chitarristici e un ukulele suonato con archetto, percussioni e recitarcantando, vanno a generare un magma sonico dal sapore Mediterraneo, fino a deragliare in una sorta di blues armeno, con tanto di armonica a bocca. E' un processo di stratificazione, quello messo in atto dai due artisti, di grandissimo fascino, dal suono e dalla portata internazionale. L'ambient, sposa il folk, la musica classica contemporanea, quella elettronica ed etnica. Rosalba, che muove a partire da un piano scordato, è meravigliosa, nel suo accompagnarsi a bicchieri (o metallofoni?) percossi. In Celeste Laguna, l'incantevole voce di una bambina, allieva di Giannotti, si muove su intervalli atonali cantati e recitati, mentre, un campionamento di una vecchia tromba con sordina e una batteria zoppicante (trattata anche elettronicamente, come nell'uso di nastri magnetici accelerati e decelerati e associata a campanacci), regalano un'esperienza sonica più unica che rara. In L'aria d'Oro è il suono gutturale di una gallina, assieme al suo battito d'ali, a dare incipit alle ritmiche elettroniche che ne deriveranno, ancora più ardite di quelle dell'ultimo Aphex Twin. In Dune d'Acqua, divisa in due episodi, tornano i felici ed imprevedibili intervalli tonali del canto, mentre la chitarra acustica è di una brillantezza scintillante (Pt I), notevole davvero anche il testo. Un drone, introduce la seconda sezione. Identico giro d'accordi della chitarra, poi elettronica, il banjo suonato ad archetto, percussioni di una profondità e un minimalismo che avvicina non poco al Scott Walker più ispirato. Come un funerale celebrato in un paese della saga Old West americana, ormai decimato da chissà quale catastrofe. Un brano magnifico davvero ed ogni sevizia strumentale, ogni gioco di cut up con l'elettronica, suona come una benedizione, al nuovo fatto musica. Una chitarra martoriata con un wah wah (?), introduce le profonde sonorità, associate a gatti indemoniati, in Ma tu Dov'Eri?. Neanche a dirlo, sono le fusa di un gatto, associate a chissà quali diavolerie soniche a dare incipit ritmico al brano, subito dopo e poi un russare (!). E' come se tutto si muovesse secondo una volontà presente, ma percepita come involontaria. Le ritmiche sono tutte gestite sulla base di campionamenti (l'accensione di una motocicletta, accompagnata ad un trombone e a suoni di latte metalliche trattate elettronicamente “a singhiozzo”). E poi..... il pezzo prende quota tra tromba e trombone in serrato dialogo, sostenuto da una batteria wyattiana, prima che tutto si dissolva in uno sgangherato dialogo con bicchieri (con tanto di detune applicato), suonati su scale orientali e sostenuti da chissà quali fantasmi di altri suoni. C'è spazio per quiete e per un ritorno all'origine. Che dire se non....geniale? 8.5/10
Ascolta Stefano Giannotti e Salvo Lazzara - La Vostra Ansia di Orizzonte
 

3B) Marco Lo Muscio: The Organ Works of – Kevin Bowyer plays the Willis Organ of Glasgow University Memorial Chapel
Noto più che altro per le sue escursioni nel mondo della musica rock, quella ascritta al verbo progressivo, in particolare (il progetto Playing the History, la collaborazione con Steve e John Hackett, i riadattamenti per organo della prima produzione dei Genesis), fortunatamente, Lo Muscio, è compositore di ben altro livello. L'esecuzione ad opera di Kevin Bowyer della sua produzione organistica, è evento che merita attenzione. Capolavoro assoluto delle incisioni raccolte, la VIA CRUCIS: Stations of the Cross, che attinge alla spiritualità più misterica di Olivier Messiaen, per esplodere in uno sconcerto sublime (di dissonanze), nel senso romantico del termine, nella XII stazione, “Jesus Dies on the Cross”. Un percorso meditativo e trascendentale, che abbraccia anche i momenti più vividi della Fantasia e Fuga sul nome B.A.C.H. Di Franz Liszt. Una pagina importante in un periodo in cui la composizione per organo attraversa un momento di stanca. Lo Muscio trova dimensione congeniale, non nei pastorali, ma nei momenti di scrittura più cupamente meditativa o di virtuosismo dissonante più vivo, ne sono esempio l'Ostinato a quattro mani, che lo vede anche esecutore e il brano conclusivo, di grande effetto, New Litanies in Memory of Jehan Alain. Un nome che con gli anni acquisterà certo sempre più prestigio, ma che, già tra questi solchi, guadagna un credito importante tra i compositori italiani contemporanei. L'esecuzione di Kevin Bowyer, ovviamente, è di notevole interesse, anche per la capacità dell'esplorazione timbrica dello strumento, per quanto Lo Muscio, nella sua esuberanza, riesca con ulteriore convinzione, nelle dinamiche più accese. Un saldo 8.5/10

“Via Crucis” – incisione di Luca Missaglia

 

 

"New Litanies in memory of Jehan Alain" (2008) – esecuzione dell'autore

 

 

“Ostinato”

 

 

3C) Superbi i King Gizzard & The Lizard Wizard, che con Polygondwanaland coniugano lo spirito della psichedelia più affine al garage con il punk. Senza dubbio, la più grande invenzione psych, da molto tempo a questa parte (dai tempi dei Brian Jonestown Massacre?), in loro, il rumorismo dei Chrome, le spirali degli Hawkwind (su tutto, anche per l'eccellente apporto violinistico), riff a la Sex Pistols, il fare burlesco dei Gong (in particolar modo per il canto). La cosa che più sorprende, é che dal vivo il disco suona ancora meglio. Degli autentici killer cybernautici. 8.5/10
Ascolta King Gizzard & The Lizard Wizard - Polygondwanaland
 

3D) Dall'Albania, giungono gli ET /AL, band prevalentemente strumentale dalle molte sfumature, capace di un rock che unisce post-rock, psichedelia, soundtrack, sinfonismo e una certa propensione ad un suono oscuro, con forte identità e una creatività (oltre che tecnica) dirompente, tra i Bark Psychosis, i Rachel's, l'ultimo Nyman e i Motorpsycho, ma ogni riferimento, risulterebbe più che goffo. A guidare la band è un violoncello (seguito a rotta da una sezione di archi) che detta ostinati ritmici di grande fattura. Eccellente la loro Swan Blues, dalle trame a tratti, talmente spiriformi e dissonanti da portare alla mente i migliori High Tide e i Van Der Graaf. Allo stesso modo, magnifica Jasmine 1, con chitarra psichedelica di un atmosferico da brivido in solo e melodia balcanica sorretta dagli archi.  Difficile rintracciarne notizie, non fosse che per una superba registrazione effettuata dal vivo per RAI Stereonotte, alla quale attribuisco un 8.5/10. DA NON DIMENTICARE.

3E) I Motorpsycho, tornano con The Tower, la loro opera più matura e dal vivo assurgono probabilmente al titolo di migliore band del pianeta, nonostante la lunghissima carriera. La loro fusione tra hard rock, psichedelia, progressive rock, è ispirata come non mai. Il suono è compatto quanto ricco di sfumature. Per chi scrive, uno dei più grandi capolavori progressive di sempre e basta la title (and opening) track a mostrarlo e tanto più Bartok of the Universe, il cui solo titolo merita un premio. Un florilegio di invenzioni, ma, alla resa dei conti, nulla di autenticamente nuovo, solo (e non è poco), un disco BELLISSIMO. 8.5/10
Ascolta Motorpsycho - The Tower
 

4) La fa per la gloria, la sua musica, Colin Stetson (All This I Do For Glory), questa volta con brani più simili a canzoni e voci in falsetto trattate elettronicamente, null'affatto dissimili a quanto ideato da Thom Yorke. I brani si articolano su stratificazioni di loop, ottenuti, ovviamente, col suo fenomenale sax contrabbasso (ma non solo). Il loop di Like Wolves on the Fold, è di una bellezza unica, ma non di meno quello di Between Water and Wind. Quest'uomo ha reinventato uno strumento (ogni suono riproducibile con esso, rumori di ancia e meccanica, diventano parte essenziale di esso) ed è ormai lontano da ogni caratterizzazione di genere. Unica cosa da imputare al disco, è che talvolta l'invenzione, non è supportata da altrettanta anima. 7.5/10
https://colinstetson.bandcamp.com/album/all-this-i-do-for-glory

5) Harris Eisenstadt, in Recent Developments, regala un tocco della Vecchia Europa decostruzionista jazz/R.I.O., con fare fantasioso, grottesco a tratti e non meno cerebrale. Disco arrangiato in maniera superba, resta tra le cose migliori dell'anno, ma non tale, a mio avviso, da lasciare lontana memoria, chissà..... 7/10
Ascolta Harris Eisenstadt - Recent Developments
 

BONUS:

Rientro sottovalutato, quello dei Mogway, che si dedicano (ormai è un virus che inizia a stancare), a trame ben più dilatate che in passato. Il risultato eccelle dal vivo, in studio, a tratti un po' annoia.

Sopravvalutatissimo invece il ritorno dei Mount Eerie, con un disco folk dai racconti lunghissimi, ma parecchio ridondanti, nulla a che vedere con la grandezza folk minimale e depressa di un Matt Elliott.

Per gli amanti del pop aereo e senza troppe pretese, gli Alvvays, sono una buona alternativa, ma alle orecchie del sottoscritto, nulla da ascrivere ad alcun empireo.

PIANETA ITALIA:

In Italia, si dà finalmente giusto merito alla bellissima voce di LP (Laura Pergolizzi), capace di un canto graffiato, tradizionalmente rock, quanto di sovracuti da soprano di coloritura a dir poco sorprendenti per quantità di armonici, la musica..... è “accattivante”.
In ambito jazz, ho avuto già piacere di segnalare in passato, la collaborazione tra Enzo Lanzo e Gianni Lenoci, nell'arco della Rassegna Dweto. “Dweto”, ora è titolo di un album, che raccoglie due tracce registrate dal vivo con Lenoci e quattro, col ben noto talento di Mirko Signorile. Un disco live per pianoforte e percussioni dunque, in cui, in fase di post-produzione è stata aggiunta l'elettronica di Roberto Matarrese, in qualche caso ben integrata, qua e là, a mio modesto avviso, posticcia. La sorpresa che ne ho tratto dall'ascolto, è la scelta delle esecuzioni con melodie ben avvicinabili, che solo nelle esecuzioni di Lenoci, in itinere, si sfrangiano in una deflagrazione tonale, cosa che accade tanto nella sensazionale sezione centrale di Angel Eyes/Lonely Women (quest'ultima con una chiusura di una bellezza melodica strappalacrime), a partire da temi di Matt Dennis/Earl Brent e Ornette Coleman, che in Ida Lupino, su tema di Carla Bley (esecuzione, comunque di interesse minore). Qui, assolutamente superflui, i drone che accompagnano il pezzo, invasivi e tale da distogliere dal lavoro eccellente di Lenoci al piano, che crea una circolarità spaziale nella sezione iniziale, per poi trovare, intorno al sesto minuto, una relazione ritmico percussiva con Lanzo, di gran nobiltà. Signorile, dal suo canto, lavora assieme a Lanzo, in un'ottica nettamente più vicina alla musica latina e alla tradizione afro-americana, sposata col minimalismo romantico europeo, regalando le migliori intuizioni melodiche (The Seagull Welcomes A. sorretta peraltro da un virtuosismo tecnico ed interpretativo, non di poco conto). Il suo contributo al disco di maggiore fascino, è a mio avviso Gentle Rain. E' con lui che Lanzo si sente più a suo agio e rende una tecnica energica quanto eclettica (ne è esempio chiaro la bella title track). Un disco che mette in rapporto tre personalità, solo a tratti differenti, ma che saprà conquistare un pubblico esigente, quanto uno avvezzo ad un jazz stravagante, ma non necessariamente di difficile presa. Affascinante.

Enzo Lanzo, Gianni Lenoci - Angel Eyes / Lonely Women

 

 

Enzo Lanzo, Mirko Signorile - Dweto

 

 

Enzo Lanzo, Mirko Signorile - Gentle Rain

 

 

Un doppio DVD, che fa seguito all'omonimo e splendido (e tale da essere considerato storico) libro Solchi Sperimentali Italia (Crac Edizioni – 2014), a cura questa volta, dello stesso Antonello Cresti (autore del DVD dedicato ai musicisti coinvolti), ma anche del regista e musicista Francesco Paladino (autore del film), cerca di gettare luce su 50 anni di musiche italiche underground, tramite un film, al limite dell'inverosimile/fantastico e grottesco e un DVD con interviste/performance, facenti riferimento a numerosissimi musicisti di quella Carboneria, in origine discussa. In qualche caso (anche per lo spazio, nell'ordine dei minuti, o secondi, dedicati da Cresti), le poetiche risultano chiare, stimolanti e tali da muovere lo spettatore/auditore alla ricerca di fonti, in altri casi, a chi 10-20 secondi vengono offerti per presentarsi, scelti in maniera oggettivamente arbitraria (“tu mi piaci, tu di meno”), non si capisce alcunché. Ad ogni modo, un'operazione non trascurabile, per quanto il libro sia ben altra cosa.

DINOSAURI ALL'ATTACCO

Come in epoche antiche, li abbiamo visti ritornare nel ruolo di “maestri” e non più come figure da denigrare. Hanno talvolta delineato le coordinate della scrittura di chi, talentuoso, alla musica si è avvicinato con coraggio pioneristico. E' il caso di Scott Walker, lo è stato per il David Sylvian di Blemish e Dead Wool, di Kate Bush con 50 Words for Snow, di Peter Hammill con Consequences, di Robert Wyatt con Shleep e Cuckooland, degli ultimi Bowie e Leonard Cohen, degli Swans, dei Current 93, di Lino Capra Vaccina e Paolo Tofani, di Peter Broetzmann, di Salvatore Sciarrino. Quest'anno no, nessun maestro a tracciare la strada del nuovo per chi memoria ha perduto, ma anche metodo e consapevolezza del valore del fare “arte”, dello spostare l'angolo di visione del mondo di almeno qualche decina di km avanti, dove si fa fatica davvero a vedere e si deve mettere in moto la mente e talvolta anche la coscienza, nel leggere il presente e presagire il futuro. Quest'anno, la leva dei fondatori del rock, al pari di come è accaduto qualche tempo fa con gli ultimi e bellissimi album di Dead Can Dance, Keith Tippett, John Greaves, Roy Harper e Comus, è tornata a farsi sentire, producendo alcune delle proprie pagine migliori, ma non per questo, tali da fungere da faro, solo e non è poco, a rimarcare una solida garanzia di autenticità storica di un movimento, che invece, sommerso dalla necessità di apparire e vendere, si autocensura a priori.

Roger Waters torna dopo più di due decadi con (forse) il suo migliore disco di sempre, Is This the Life We Really Want?. Poco e nulla è cambiato, se non la voce anzitutto, più corposa, espressiva e bella di quella di un tempo. Per il resto, i temi socio-politici strettamente legati alla vita corrente, gli arrangiamenti, per quanto colorati da cori femminili, archi, riprendono in modo più che prevedibile quanto scritto in tempi ormai davvero lontani anni luce con la leggenda floydiana. Gli stessi campionamenti di vetri infranti, voci da radio, gabbiani, che avevano arricchito The Wall e The Final Cut, le stesse ossessioni, con un Waters rinchiuso in una stanza/cella, dalla quale emerge solo alla fine dell'album. Perché allora questo è un bel disco? Perché le melodie sono talvolta superbe e sono interpretate in modo altrettanto importante. Le armonizzazioni del singolo The Last Refugee, sono magnifiche, anche se i sintetizzatori, quanto gli archi, le chitarre, continuano a ripetere gli stessi arpeggiati (triadi a non finire), di una banalità disarmante. Picture That, è né più né meno che un rimasuglio di qualità da Animals. Va meglio quando le ballate restano tali, senza troppe complicazioni e Broken Bones, oltre ad esser tale, può contare su un arrangiamento d'archi tutt'altro che scontato. A sentire questo disco, sembra che Nobody's Home sia la pietra miliare su cui la maturità dell'autore si è retta tutta. Inutile dirlo, ogni tanto l'effettistica si fa fastidiosa e didascalica (del resto il populismo dei Floyd, anche su questo si è retto da The Dark Side in poi), come nei violoncelli della title track, invero bruttarella (qui tornano pure le voci di folla in guerra da The Wall), o nei synth di Bird in a Gale, che richiamano a gran voce Alan Parson. Tanto più la tavolozza si fa meno carica, come in The Most Beautiful Girl, tanto più il risultato sa emozionare (che meraviglia qui il suono del corno...). Nel brano, una modulazione finale, assolutamente inaspettata, innalza il livello di scrittura ad una nobiltà superiore, per quanto i coretti femminili, non si astengano da rimarcare la solita triade maggiore, arpeggiata.....Tra i brani accigliati Smell the Roses, è tra i più riusciti (incluso break centrale rumoristico), per quanto il marchio Floyd emerga in maniera preponderante. La triade di pezzi conclusiva, si basa sullo stesso giro di accordi e trova la dimensione, a mio avviso più consona a Waters, quella del songwriter più che del compositore in senso stretto. Un disco vero, a monte di tutto, che se spogliato di suoni vari si mostra nella sua umanità nuda, fatta di acciacchi e slanci, ma anche e soprattutto, un ritorno che sa emozionare, solo se lontano dalla nostalgia. 6.5/10
P.S.: fa sorridere e tanto, come l'artista visivo dell'avanguardia italiana che fu, Emilio Isgrò, faccia causa all'autore per la copertina del disco, per plagio e la vinca. Fa sorridere, perché Isgrò non è mai stato nessuno, essendo lui per primo, nato dal plagio di Duchamp, a cui ha “rubato” l'idea delle cancellature legate agli scritti, poi unico marchio di un'intera carriera. Guerre di Ego.
Ascolta Roger Waters - Is This the Life We Really Want?
 

Nik Turner: Life in Space
Voce in parte effettata, turbinii di sintetizzatori, ma gli Hawkwind sono lontani. Qui la psichedelia è quella primigenia, fatta anzitutto da incantevoli/incantate melodie ed arrangiamenti cesellati nei minimi dettagli (quanto gli XTC, Steve Wilson e gli Oasis abbiano preso da qui, è chiaro come uno specchio appena lucidato), rare le escursioni strumentali, caramelle lisergiche. Questo, è in parte disco che può piacere ad un adolescente assai più che a un cinquantenne con orecchie foderate da nostalgia. Alla prima, bellissima melodia della title track e miglior pezzo della pubblicazione, segue un brano di psichedelia garage, che sembra baciato da un Dio Maya. Man mano il disco scorre, sembra di assistere ad un abbecedario della psichedelia pop degli ultimi 50 anni, dai Red Crayola, per arrivare ai Kula Shaker, agli Ozric Tentacles, ai dimenticati Coral, i Bevis Frond e ai Brian Jonstown Massacre. Nei soli di sax, quanto e più, negli arabeschi di flauti, Turner, è ancora maestro strumentale assoluto. Back to Earth, in tal senso, è incantevole..... Secrets of the Galaxy, è il brano più nostalgico (Warrior at the Edge of Time, è più che un ricordo qui). Va meglio, nettamente con Universal Mind, che mostra da dove venga la scrittura di Robyn Hitchcock. Turner, è vero maestro dell'alternanza tra staticità armonica ed invenzione trasversale, grazie ad una formazione jazzistica dichiarata. Approching the Unknown, è capolavoro strumentale, nel quale si odono lontane le spire del violino di Simon House, ma da qui in poi, per quanto la maestria sia innegabile e la qualità musicale elavata assai, si ritorna indietro di anni ed anni. Curiosamente, la rilettura di Master of the Universe (con Simon House in primissima evidenza), risulta più attuale di altre cose contenute nel dischetto e il solo di sax di Turner qui, da solo, vale l'ascolto dell'intera release. Bel disco davvero, sospeso tra presente e passato, tanto più quando ricorre alla formazione canzone, piuttosto che all'esplorazione di spazi cosmici siderali. 6.8/10
Ascolta Nik Turner - Life in Space
 

Peter Hammill: From the Trees
Coerente fino al masochismo, ma sempre diverso. Non è possibile parlare di Hammill come di un “dinosauro”. La sua è ricerca formale, poetica, sonica, che non è mai andata esaurendosi, ma che si è rivelata in drammaturgie sempre diverse e pronte a fare dei suoi ascoltatori, un piccolo popolo di eletti in attesa di una redenzione catartica. E' la sua produzione solista ad essere garanzia di evoluzione, a dispetto delle minime varianti su tema che la storica band di cui è leader, produce, pur con assoluta incisività. Se il suo Consequences, è stato uno dei migliori dischi di cantautorato avant dell'ultimo decennio, i dischi a seguire si sono distinti per freschezza di scrittura e slancio sonico (Other World, con Gary Lucas), o per profondo fascino di scrittura, così autocompiaciuta, nella creazione dell'esploso di un racconto in musica (...all that might have been... capitolo Ciné), da risultare inavvicinabile. From the Trees, è uno dei suoi migliori dischi di sempre, il capolavoro della terza età, tema sul quale la scrittura delle liriche verte (la memoria, ciò che è andato perduto, la decadenza fisica). Perfetto più di Consequences (per quanto le vette di quel disco rimangano non ripetibili), perché senza sbavatura alcuna. Belle le melodie, che alternano freschezza di invenzioni prog folk (My Unintended, Charm Alone, Girl of the North Country), a psicodrammi di gran potenza lirica. E' il caso della conclusiva The Descent, già un classico, ma ancora di più di On Deaf Ears, che flirta con l'avanguardia più torrida e di What Lies Ahead. Questi tre brani assurgono al ruolo di perfetto equilibrio tra avanguardia e cantautorato nobile e assieme al riff ipnotico di Torpor, sono i capolavori dell'album, quattro autentiche gemme, a cui si accoda l'altrettanto bella Anagnorisis. Il resto dispensa intuizioni melodiche felici e fresche (il triste valzer di Reputation, mentre Milked, dal vivo, eseguita al solo piano, diventa racconto di una tensione palpabile, in un crescendo armonico emozionante), il tutto sorretto da un'essenziale linea di basso, dal pianoforte (acustico), dalla chitarra (acustica e a tratti elettrica, con consueti effetti in reverse, o in declinazione dronica) e da sparuti synth. Nessun suono invasivo, nessuna percussione sintetica, assai spesso rovina delle migliori intuizioni hammilliane. Tutto è bilanciato alla perfezione, mastering incluso, mai così limpido e ad un volume tale da essere udibile in ogni sfumatura. Le liriche sono tra le più belle degli ultimi anni e senza dubbio tra le più sincere e toccanti (anche se, con A Run of Luck - anno 2012 - l'autore sembrava aver cucito definitivamente le sue labbra, come preannunciato nella profetica In the End, del 1973). Il canto...... Se all'estero la duttilità della voce di Hammill, il suo range tra i più estesi ancora tutt'oggi (al pari, mi viene in mente solo Maynard James Keenan
), la capacità di esprimere caratteri diametralmente opposti in voci che si sovrappongono in un coro fatto dei fantasmi gotici di Poe, echi coreutici, allucinazioni da follie shakesperiane, demoni che pare inimmaginabile parlino con la stessa bocca, vengono esaltati e celebrati, in Italia, si parla di “uomo vecchio, dalla voce stanca”. E vecchio è Hammill, senz'altro, ma il suo canto raccoglie tutto lo spirito e l'erigersi a “vivo” del mondo e lo esibisce, questa volta, con rare imperfezioni, cosa che non accadeva dal 2004, prima del fatidico infarto che ha cambiato la sua vita, rinvigorendone l'ispirazione in maniera esponenziale. Lo ha manifestato in un tour trionfale (quasi ovunque sold out), che nella sola Italia e in sole 7 date, ha portato all'esecuzione di ben 96 brani diversi, un record assoluto, ma anche una  resa non prevista dal più accanito dei fan (con canzoni eseguite dopo più di 30 anni, altre suonate per la seconda volta appena, “La Rossa”). Praticamente perfetta la data di Roma, bellissime quelle di Milano e Terni, di tutto rispetto quella di Livorno, dove gli è stato conferito il Premio Piero Ciampi alla carriera. Un'intimità ritrovata, su disco, che non ha paura di confrontarsi con lo spettro della morte, che aleggia nelle sue opere da Singularity in poi. Forse il disco più affine a And Close as This e Clutch, ma con una identità tutta sua e assolutamente in stato di grazia. 8/10

P.S.: L'autore ha ritirato da ogni piattaforma virtuale l'album (dopo appena un giorno dalla pubblicazione, l'intero album era su Youtube), peccato, davvero, in rete, solo i demo, di poco conto e tratti da quell'EP fantasma, noto come “V”, distribuito solo in Giappone durante un tour e immediatamente postato in rete (da qui, Hammill ha sentenziato, “tenetevi quello ora”).
Qui, qualche performance dal tour italiano, ad attestarne la grandezza, alla soglia dei 70 anni.

The Lie

 

 

Patience

 

 

The Siren Song

 

 

Skin

 

 

Traintime:

 

 

Refugees:

 

 

Modern:

 

 

LIVE = LIFE

Può succedere che l'incontro fortuito di 4 indomiti musicisti del nuovo jazz, determini una performance storica, per quanto isolata? E' già accaduto in passato, non ci sarà alcun disco che ve la farà ascoltare, ma quanto successo la sera del 12 Ottobre scorso, ha avuto dell'incredibile. Al Werkstatt der Kulturen, a Berlino, si incontrano sullo stesso palco, Jim Black (per chi scrive, il più grande batterista in circolazione al momento), i synth folli, al limite dello schizoide di Liz Kosack (geniale), il metronomenico E-Bass di Dan Peter Sundland e la voce di Ayse Cansu Tanrikulu (a mio avviso, elemento più debole del combo, giacché nulla aggiunge a quanto fatto da Dave Moss, Phil Minton e Ute Wassermann), in una formazione battezzata MEOW. Un solo brano, di una precisione esecutiva sbalorditiva, considerando le trame ritmico/soniche al limite del delirio più inedito e scarsamente immaginabile. Qualcosa di realmente indescrivibile, che meriterebbe davvero una macchina del tempo, a riportarci indietro tutti e a chiedere, a gran voce, che tutto ciò abbia, per favore, un seguito. Sublimi.
Qui una performance di livello inferiore, ma che ben mostra il talento inarrivabile di Black:

 

 

A seguire, la commissione, da parte del Moers Festival ad Ingrid Laubrock, di un brano orchestrale, Contemporary Chaos Practices, che assieme a Volgelfrei, del 2012, viene eseguito, il 5 Giugno dello scorso anno, in un evento noto come “Orchestral Pieces”. La Laubrock, propone due brani di una potenza espressiva grande, che, ovviamente, danno risalto al suo strumento, il sassofono, ma che fanno della coralità un valore assoluto. Si è dalle parti di un sistema misto, più atonale, che tonale, con commistione tra jazz nordeuropeo e classica contemporanea che a tratti lambisce il puntillismo sonico (in particolar modo per gli arrangiamenti affidati alle percussioni, pianoforte incluso). Tra le due composizioni, emerge il brano presentato in prima assoluta, che supera di slancio anche le intuizioni di Romitelli e fa dell'uso della chitarra elettrica elemento imprescindibile, quanto vicino alla poetica degli ultimi grandi innovatori, da Cline, al più ardito Bailey (senza trascurare riferimenti ai pizzicati rapidissimi, ad evocare un mandolino, di Robert Fripp). Eccellente.

 

 

A seguire, il duo Thom Yorke e Jonny Greenwood (dopo il sensazionale ritorno dello scorso anno, che li ha rincoronati re dell'avant rock con l'epocale e misticissimo album A Moon Shaped Pool), regala a Macerata, il miglior concerto ascrivibile al verbo Radiohead, in data 20 Agosto. In duo, il marchio più importante degli ultimi 30 anni, riacquista pathos, espressività, elementi sommersi dall'elettronica degli ultimi anni, senza dimenticare soluzioni soniche di assoluto prestigio. Yorke, in particolar modo, accusato di aver fatto di un trademark il suo essere calante in modo, certo lamentoso, ma per nulla convincente, ne viene fuori alla grande, con una voce assai più precisa, espressa in potenza e non in sussurro, intonata come non nelle ultime incarnazioni del gruppo madre. La scaletta è da brivido, la causa umanitaria, è lodevole. Indimenticabile, per chi c'era.
Per chi non c'era....l'intero concerto in video:

 

 

I Low (ribattezzati Organ Reframed), nel loro tour del 2017, si presentano in alcune date, celebre quella alla Union Chapel di Londra, il 14 Ottobre, la più bella, quella ad Amsterdam, due giorni dopo, in formazione per solo duo vocale (Alan Sparhawk e Mimi Parker), organo a canne, usato anche in veste percussiva (Steve Garrington) e l'aggiunta di drones. L'esito è sbalorditivo. Chi avrà il coraggio di chiamarli ancora “gruppo folk?????”.

 

 

Anna Von Hauswolff, dal vivo, si esprime con performance di un'intensità non indifferente, per quanto in parte riconducibile a due fari (un po' troppo poco per qualificarla come autenticamente “nuova”): Dead Can Dance e Diamanda Galas, ma l'esito, è di una spiritualità che alterna antico, con trame enormemente dilatate (in questo è il suo marchio e il suo prendere distanze da referenze), a moderno post-industriale. I suoi drones, sono autenticamente magmatici e corrosivi e sposano elettronica ad acustica in modo mirabile. E' questa musica di un'austerità classica, che supera di slancio, anche quanto fatto dalla primissima Carla Bozulich. Peccato, l'abbandono dell'organo nelle esecuzioni live.
Da ascoltare e vedere:

 

 

I Macula Dog, dopo l'effervescente album dello scorso anno, si presentano dal vivo con la stessa teatralità, ma con una perizia tecnica nettamente superiore. I loro show sono una delizia per orecchie ed occhi e l'accusa di plagio nei riguardi di DEVO e The Residents, è ormai alle spalle. La loro decostruzione elettronica, supera l'idea dell'estetica glitch easperandola ad un punto tale da risultare organica nel racconto. Faranno cose grandissime, senza dubbio.
Live video:

 

 

Nick Cave, dopo un sopravvalutato (a mio avviso) disco, lo scorso anno, dice di avere trovato nel pubblico l'abbraccio che lo ha riportato in vita, dopo la tragedia familiare che lo ha colto. Il suo enorme tour stenta a decollare, ma è in Italia che raggiunge il suo climax, trovando la forza di dar voce, suono e rabbia, anche ai pezzi storici e un dramma struggente, al limite dell'inascoltabile (teatro della crudeltà, auto-catarsi) alle nuove confessioni in musica e liriche, sempre irraggiungibili. Milano, ma soprattutto Padova (concerto memorabile), sono state tappe importanti, a Roma, la deflagrazione totale, nella quale, l'autore rinnega invece tutto quanto detto e si rivolge sputando verso il pubblico, affermando “non potete capire” e voltando ad esso le spalle. Il margine di distanza viene rieletto al ruolo iniziale e diviene insondabile. Io avrei chiesto indietro i soldi del biglietto.
Bill Callahan, si presenta dal vivo, per un paio di date, in duo, con alla chitarra elettrica Matt Kinsey, regalando gli show più emozionanti della suo percorso. La voce diventata estremamente profonda e abrasiva, l'atmosfera da recital che attribuisce ai live, la scarna poesia, associata alla sua musica solista, uno dei pochi scrigni autentici di cantaurato nobile degli ultimi anni, rendono il tutto, tra le più memorabili esperienze degli ultimi anni.
I Sigur Ros, con formazione ridotta, risorgono, trovano freschezza, affiatamento, ammaliano come non mai con la loro dolcezza infantile, che sa vedere luce anche dove è il buio più grande. A loro, un grazie di esistere.
L'Opera The Transports (1977) di Peter Bellamy, a tema immigrazione, ri-eseguita dopo anni e tra le meno rappresentate da sempre, si presenta nel 2017, nella sua edizione più bella, con una capacità evocativa assai rara, foriera di un recitarcantando fiabesco, di una scrittura arcaicamente folk quanto presente. Pura meraviglia, destinata a divenire un classico della musica anglofona tradizionale.
Se Mats Gustaffson aveva trovato in passato con, Peter Broetzmann e Nate Wooley, l'unione di energie comuni in modo straripante (ma di ciò resta solo memoria) e la Fire!Orchestra, mostra un po' di stanchezza, è con il NU Ensemble, che il fiatista, trova le energie più dirompenti, oltre che torrenziali, anche per la durata delle improvvisazioni, assecondato, dalla grandezza di Christof Kurzmann (chi si lo ricorda, al fianco del grandissimo Burkhard Stangl, in Schnee e Schnee live? Ambedue capolavori assoluti del nostro tempo, quanto, ahinoi, introvabili) e di una trombettista, di cui subito, avremo a che dire.
A reggere e ben alto, il testimone del jazz nordeuropeo, in primis, i grandissimi, Life & Other Transient Storms, che pure nella dissoluzione armonica più pura, tessono geometrie, ora isteriche, ora puramente liriche (nonostante l'impiego di scale esatonali). Susana Santos Silva (come intuirete, tra le stelle del prima citato, NU Ensemble di Gustaffson), è da annoverare, assieme a Wooley, tra le più grandi trombettiste in circolazione. Poesia e astrattismo sonico, tanto in studio (è del 2016, il loro lascito), che dal vivo, non cedono, mai, spazio ad alcun momento di stanca. Non solo, anche gli arrangiamenti, laddove sfiorano il mosaicismo più arduo, risultano di una perfezione matematica unica e mai fine a sé stessa.

Susana Santos Silva, assieme al grande talento di Jorge Queijo, in un video del 2013:

 

 

L'immarcescibile Fred Frith, dal suo canto e qui si è al miracolo, riesce tutt'oggi ad inventare combinazioni strumentali al limite dell'impossibile, al pari di Nels Cline. Irrefrenabili davvero.
Nella classica contemporanea, dopo anni di riscoperta di Henry Dutilleux, è la volta di Philippe Manoury, la Francia, si dimostra dunque, la più attenta al suo patrimonio accademico, pur con uno spirito, che di accademico e per fortuna, ben poco ha. Importante, anche la riscoperta della musica antica, ad opera dell'Ensemble HESPÈRION XXI, su tutti.

ARCHIVIO:

Joan La Barbara: The Early Immersive Music Of Joan La Barbara
Senza la sua ricerca, che ha tratto si, spunto da quella di Cathy Berberian, ma portandola in una dimensione ben più contemplativa, mai il percorso di Diamanda Galas e Meredith Monk, sarebbero stati gli stessi. Qui, le prime incisioni, ma anche le più importanti, perché legate al filo conduttore con l'opera di Reich, Glass, Cage, Feldman, Scelsi, Xenaxis e Berio. L'incredibile e mai edita CYCLONE, è punto di partenza essenziale per chi vuole avvicinarsi al concetto di “voce estesa”, senza ricadere nei cliché a cui l'intelligentia della ricerca vocale italiana (esiste ed esisterà solo Demetrio Stratos), ci ha abituati fino alla noia.

CYCLONE:

 

 

MEMORABILIA:

The Best Way to Walk. Non hanno pubblicato alcunché, per quanto, qualcosa (demo), su Youtube sia filtrato, sono, tra le band di psichedelic-wave degli '80, probabilmente la più ispirata e tecnicamente dotata (cosa che, con tutta probabilità, anziché facilitare il percorso del combo, lo ha archiviato definitivamente). La loro, è musica che attinge, tanto alla gothic wave, che alla psichedelia, al funky cerebrale di stampo Talking Heads e King Crimson (epoca “Discipline”, la chitarra non tradisce affatto un imprinting frippiano). Punto debole della band, è forse il cantato, una sorta di Peter Murphy meno dotato tecnicamente e trasportato indietro nei '70, nell'uso di un falsettone reiterato (ma su album, il tutto avrebbe avuto senz'altro un suono – e un'intonazione – più riuscito che nei demo recuperabili in rete). Gran musica comunque e anche tanto sfortunata.....
Utopic Sporadic Orchestra. Ascoltarli dal vivo il 17 Ottobre 1975, con Christian Vander alla batteria, Frith alla chitarra, Stella Vander alla voce, Lindsday Cooper all'oboe e al basso tuba, è un'esperienza che ogni ascoltatore che si rispetti, dovrebbe fare. Ossessivi, quanto devoti all'invenzione più pura, sono incubo sonico che sembra provenire da un altro pianeta. Questa è decostruzione pura del sistema armonico, senza rinunciare a linee di canto degli strumenti.

RIMPIANTI:

Lol Coxhill – Ascoltarlo dal vivo, nei primissimi anni della carriera, dal '71 in poi, è esperienza tra le più mistiche. Progressioni ascensionali, mai intuibili, un viaggio tra le geometrie di un quadro mai definitivamente terminato e dipinto troppe volte in collaborazioni, certo eccellenti, ma che mai hanno rivelato appieno il suo enorme talento compositivo ed esecutivo, che dal vivo, in rarissime registrazioni a suo nome, mostra tutta la sua immensa, aliena, grazia. Da ricercare le sue registrazioni non ufficiali.

Elton Dean Quartet (EDQ)

Fondato nel 1977, assieme al pianista Keith Tippett, il bassista Chris Lawrence (poi rimpiazzato da Harry Miller) e il batterista Louis Moholo, il quartetto, si propone con un jazz europeo che parte ispirandosi a Coltrane, per divenire presto ben altro. I sassofoni di Dean, abbracciano presto una poetica meno esplosiva e capace di unire cerebralità a lirismo atonale; Tippett, dal suo canto, propone una sorta di esploso tonale pianistico, assai etereo, pari a un dipinto di Tobey; Miller e Tobey, disegnano geometrie assai solide, ma con dinamiche assai aeree. La stagione migliore è quella del '79, quando l'EDQ (alternativamente al nome di Ninesense), si presenta al Teatro Cristallo di Milano (il 25 Febbraio), regalando uno dei miei concerti jazz più amati di sempre. La lunga Oasis, poi in Boundaries del 1980, ma con meno slancio espressivo, da sola è invenzione, puro interplay, fusione di linguaggi europei e afro, capacità descrittiva, attenzione per ogni singola nota suonata e perfetta aderenza al verbo musicale.

Oasis:

 

 

ANTICIPAZIONE

Qualcuno ha avuto la fortuna di ascoltarlo in anteprima. Tra tre giorni, viene pubblicato ufficialmente Maledette Rockstar, album dei Maisie, a distanza di 9 anni dal precedente, Balera Metropolitana. Si tratta e qui, non c'è da discutere, di uno dei più grandi capitoli espressi dalla musica rock italiana indipendente di sempre. 70 musicisti coinvolti (alcuni sono nomi che hanno fatto la storia dell'underground italiano, ma di quello giunto anche al grande pubblico), album doppio, grafiche di pura eccellenza, un autentico, maniacale ed interminabile brulichio sonico, che trasfigura la realtà più cruda in surrealtà, in un  cicaleccio tale da evocare Bosh e Bruegel Il Vecchio. Ho il piacere e l'onore di esserne non solo tra gli interpreti, ma anche autore delle liriche di un brano, co-autore delle musiche dello stesso.
Se siete pronti a salpare su una Nave dei Folli, fatelo e in fretta, ma attenzione, potreste rischiare di non fare più ritorno.

 

Rovine a Gaza (2017)
Alder & Ash: Clutched in the Maw of the World
Godspeed You! Black Emperor: Luciferian Towers
Brand New: Science Fiction
Rafael Anton Irisarri: The Shameless Years
Samuel Strouk: Silent walk
Stefano Giannotti e Salvo Lazzara: La Vostra Ansia di Orizzonte