AnimaMundi di Emiliano Alfonsi

Pubblicato il 12/12/2016

Sujet: Arte

Titolo mostra: AnimaMundi
Artista: Emiliano Alfonsi
Location: BANCA FIDEURAM - SAN PAOLO INVEST, via Cicerone 54, Roma
Date: 26 e 27 Novembre 2016
Curatore: Egidio Maria Eleuteri

 

avete mai chiesto alla menzogna come immagina la verità?
la prima è talmente nitida che può solo figurarla astratta.

(Emiliano Alfonsi)

 

Un imperativo, arrivare con almeno un’ora dopo l’inaugurazione della mostra, per evitare che un’esperienza importante, possa divenire una festa, certo, benvenuta, ma non tale da godere del mistico effluvio di quanto sapevo, mi sarebbe aspettato e così è stato. Ad accogliermi alla Banca San Paolo, in via Cicerone a Roma, sull’uscio, un nugulo di ragazzi nero vestiti, a dare l’idea di un pubblico “altro” e poi, una signorina gentile all’ingresso, che mi chiede i dati e mi illustra il percorso della mostra, tutt’altro che un dedalo, in realtà. Una breve rampa di scale e la prima opera, ad aprire ad un percorso, che prima ancora di porsi come sensoriale, si è dato come simbolico. In realtà, è l’emozione che poi è prevalsa. “La Rosa Mistica”, primo accesso al mondo di Emiliano Alfonsi e all’esposizione “AnimaMundi”. Simbolo della “ricerca della bellezza nell’equilibrio”, mi dirà l’artista, di quelli, che poi dirò, raramente “veri”. Più tardi, quella rosa mi sarei ritrovato ad osservarla, con sorpresa, tatuata sul suo collo, simbolo che è anche aspirazione alla perfezione, equivalenza dell’imperituro valore del fiore di Loto nelle culture orientali ;“condizione di purezza e santità, alla quale l’uomo giungerà, dopo che avrà lavorato e purificato il proprio sangue dal desiderio, quando sarà diventato casto e puro”, nella visione dei Rosacroce; generazione, fecondità e purezza, eletta simbolo della "Devozione Mistica”; Amore Virtuoso e dunque, della Carità Pietistica di Maria (per quanto, l’artista riconosca fascinazione ma non devozione nei riguardi del Cristianesimo); "Conoscenza Segreta", per gli Egizi. Quant’altro si potrebbe spendere appresso a questo simbolo, tale da assumere il valore di archetipo sempiterno, è nelle pieghe di cosa mi si presenterà di lì a poco. Ma intanto è un’opera… una sovrapposizione geometrica e materica, di incastri ordinati di legni ricoperti da garze e gesso, sul quale i pigmenti di tempera, si stendono in maniera materica, con pennellate, assai corpose, cosa che nessuno degli altri lavori esposti presenterà. Carnale, direi, a dispetto di qualsiasi attribuzione di valori mistici o esoterici, ch’essi siano, pregressi. Qualcosa che raccoglie e che non è escluso, possa richiamare a sé, senza ritorno. E qui, subito emerge un aspetto importante del lavoro dell’artista. La sua pittura è richiesta di attenzione nei minimi dettagli, sempre che si sia disposti ad accoglierla. Tra il pubblico, sono sommerso da un vociare che parla di reami, tempi perduti, purezza cavalleresca. Sorrido, mentre inforco carta e penna. Di contro, sin da subito, la mia percezione mi ha condotto ad un mondo strettamente contemporaneo dove l’icona non ha tempo, ma la sua manifestazione diventa pagano inno alla vita. Certo, il fascino dell’antico non manca. La scelta di reggere ogni dipinto su cavalletti con all’estremità superiore quello che pare un simbolo araldico (scoprirò più tardi che il valore del cavalletto esula dalla funzione di mero sostegno, facendo parte anch’esso di un ciclo di opere, un progetto partito dalla dimensione dell’ostensorio e della sua dimensione rituale) ne è esempio, ma è solo fascinazione autentica per la bellezza, estranea ad ogni tempo, ma non ad ogni logica. C’è chiarezza assoluta nel percorso che mi si dipana e non c’è tempo che regga. Potrei parlare anche della cura artigianale, che accompagna ogni tratto dell’esposizione, come a dire che nella riscoperta di un fare artigiano, c’è affermazione dell’essenza dei valori autentici. Una rampa di scale a sinistra e poi, pochi gradini, per accedere al piccolo spazio espositivo dov’è la quasi totalità dell’esposizione. Forse uno spazio angusto, perché si avverte il desiderio di vederle espandere nello spazio queste opere, per quanto, nella maggioranza dei casi, di piccole dimensioni. Il primo ciclo, è dedicato alle Virtù. Il mio sguardo è immediatamente attratto dalla “Fortezza”, eccezionale, nella capacità di penetrare con lo sguardo di chi è ritratto (ogni opera, eccetto che una, di cui parlerò più avanti, ha un modello che è associato non casualmente all’opera e che è trasfigurato, come nella ricerca del suo più profondo “essere”), interrogando le coscienze di chi osserva. Lo sfondo scuro contrasta la bellezza eburnea del viso, come quasi tutti quelli rappresentati, dal fascino misogino. Ciò che differenzia quest’opera da molte altre, è la centralità dello sguardo. Alfonsi, fa sua forza, nella raffigurazione di volti che ammiccano di traverso, come a voler cogliere “la testata d’angolo che diviene pietra e asse portante” e questa cosa inquieta, ma è invenzione fortemente caratterizzante, che sfalda la fissità iconica in qualcosa di fotografico, anzi post-fotografico, in quanto capace davvero di rapire lo spirito di chi è immortalato, di chi guarda, osserva, s’interroga. Ma qui non ci sono risposte (il che non esclude affatto certezze, di chi espone, in merito a luce, ombra, vero, falso, positivo, negativo) ed è questo il fulcro di quanto mi si (im)pone davanti. Ci sono larghi margini in queste opere, pari a un costante divenire nella mente e nello spirito e l’arte è questo, ciò che lascia abbastanza porte aperte per non definire il presente entro gabbie, anche perché, quello che chiamiamo presente è già passato e solo il futuro ha importanza e qui, di divenire ce n’è a sufficienza per dedicare ore della propria vita alla pura contemplazione, che nel frattempo scava e scava, senza sosta, nel proprio subconscio. Ogni parola successiva, alla descrizione di “Fortezza”, può essere affiancata a quello che, dal mio, soggettivo, punto di vista, è il capolavoro assoluto della mostra: “Deceptio/Inganno”. Qui, l’idea iconica sublima in una contemporaneità surreale. Le sottili pennellate del viso raffigurato, superano i limiti della tempera “a corpo” e si rapportano ad un fare divisionista che dona luce. In perfetto contrasto, i quattro visi esangui, organizzati attorno all’immagine centrale, che scruta con altera lateralità di sguardo, sembrano essere fantasmi, dei “memento mori” in chiave strettamente contemporanea, quasi un rimando alle maschere funerarie micenee. Un cuore con le sue arterie, sembra invadere come a possedere, l’austerità del volto e a fianco, la manifestazione delle piume di un pavone, segno di timore, quanto di nobiltà (ma tanti sono i valori, ognuno significante, che soggettivamente, ognuno potrebbe cogliere) e un camaleonte. Davvero, una di quelle opere che a scandagliarla, non basterebbero ore, per rapirne l’essenza, quanto ne si è ammaliati, ma il tempo è breve e devo, mio malgrado (sinceramente il mio sguardo non si è mai distaccato da questa meraviglia), volgere oltre. C’è ad accogliermi, con altrettanto calore, la bellezza di “Anima Mundi – Nihil Hic Servit”, grazia per eccellenza, che incanta tra ori, simbologie religiose ed alchemiche. Altro capolavoro assoluto è “Veritas”, dove l’austerità del ritratto, sinceramente incantevole, è nella capacità di trasformare la maturità, d’età, in profonda bellezza. Toni pastellati, rassicuranti, fermi, si sposano a ad un impianto di volumi su tavola a più strati, che generano sottili ombre, risonanze/sonanze, di una purezza immacolata. Piano, mentre, l’artista mi riconosce, salutandomi con un tocco sulla spalla e uno sguardo, per nulla casuale, mi verrebbe da dire perché, di traverso, mi avvicino al ciclo degli arcangeli.“Raphael” è pura eleganza, “Michael”, stordente, incastonato nella più preziosa delle rose mistiche, arabesco tentacolare, che si espande nello spazio, dove l’idea di cornice diventa, forse, ancora più importante dell’immagine, a chiedere attenzione, appresso allo sguardo caritatevole e denso di purezza dell’effigie immortalata e poi “Gabriel”... Come prima detto, i visi di Alfonsi, soprattutto quando ritratti di profilo e questo ne è chiara testimonianza, scrutano lo spettatore, scarnificandolo. Un’ esperienza mistica autentica, di quelle che non lasciano vuoti pneumatici nella coscienza, tolgono fiato e raggelano per il tempo che a loro si vuole dedicare, come alla partecipazione di una richiesta di autentico amore, che qui, eccezion fatta per la prima opera in mostra, non ha nulla di carnale, trascende. L’unica, vera, icona del lotto, nel senso più tradizionale del termine, è la “Mater Misericordiae” (e qui mi ricollego a quanto detto prima, in merito all’assenza di un “ritratto” vero e proprio), che riporta anche certe austerità bidimensionali bizantine, in particolare nella raffigurazione del Bambin Gesù. Su un piccolo piedistallo, come incastonato in una pietra, la raffigurazione di Papa Giovanni XXIII, “In Buona Luce”, piccolo gioiello, bontà di spirito, da cui traspare quella “curiosità mistica nei riguardi del Cristianesimo”, di cui, Alfonsi, dice. Il tempo per rivolgere domanda al modello di “Deceptio”, curiosamente amico di una quantità impressionante di conoscenti, “come ci si sente ad essere raffigurato come l’inganno?”, risposta mai avuta, nell’affastellarsi di curiosità altre e a cui, poi, l’artista darà risposta: “l’inganno nel suo manifestarsi è più sincero dell’aura che appartiene alla sincerità” e… come non dargli ragione? Una breve intervista segue, inframmezzata da domande e curiosità che giungono da altre voci. Alfonsi è persona di un’umanità grande e insondabile, tra chiari e scuri, ma di una socievolezza rara, pari alla sua immediata reattività, sintomo di intelligenza viva e apertura curiosa quanto brillante, a quanto gli vien detto. A vederlo in foto sembra un gigante e lo è, nel carisma che trasmette. Dice, come, chi lo sostiene nella presentazione del suo percorso, che un artista è sempre solo, ma in questo contesto, io vedo e percepisco, tante persone a lui profondamente vicine, portatrici di stima e profondo affetto, ma come non dargli ragione? Non c’è mai vuoto che possa essere colmato, quando si ha tanto, anche troppo, da dire e dare. Si discorre della diffidenza nei riguardi della critica, parlando di Adorno e Argan (e della necessità di una sintesi più manifesta nella scrittura di quest’ultimo), dell’urgenza di vita come forma d’arte in sé e al mio dire, “si, la tua, oggi, è avanguardia”, ricevo un sorriso diffidente e sincero, come a dire “vuoi definirmi quando in realtà non c’è nulla di autenticamente definibile nel mio percorso?”; del legame tra il valore dell’icona e dell’archetipo junghiano; di come i dipinti possano essere “pagine” scritte, ma in costante movimento; del sacro margine che può legare arte e artigianato, senza sminuire né l’uno, né l’altro concetto (in un’epoca dove tutto si consuma, qui l’invito ad una dimensione “altra”, dove il tempo non conta, invita anzi a denudarsi completamente d’ogni sovrastruttura e lasciare il resto fuori); poi…il tempo invece, non basta più e mi pento di essere arrivato così tardi. Avrei preferito la folla, alla possibilità di discorrere più a lungo. Ci sono incontri che ribaltano le prospettive. Mi allontano, sazio, forse saturo, da una banca, come questa fosse diventata per me un sacrario, io, più vivo e pieno, di domande e visioni. Ad ognuno, auguro, la possibilità di una simile esperienza, perché le persone, come quello che generano, non possono essere sostituibili, come il regime di pensiero che viviamo porta a credere. Autentico stupore. Grazie, Emiliano Alfonsi.

AnimaMundi
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AnimaMundi. Emiliano Alfonsi