Gianmaria Testa: Entrevista del 26/11/2011

Publicado el: 26/11/2011


Sono stati ancora una volta i francesi, forse più sensibili di noi alla musica di qualità, a far scoprire al grande pubblico il talento di Gianmaria Testa, cuneese, classe 1958, che solo fino a pochi anni fa si sentiva forse più ferroviere che non cantautore. Dalla pubblicazione del suo disco d’esordio “Montgolfières”con l’etichetta francese Label Blue nel 1995 di anni ne sono passati tanti, tra i tanti episodi c’è stata anche una Targa Tenco come migliore album dell’anno, ricevuta nel 2006 per l’album sull’attualissimo tema dell’immigrazione intitolato “Da questa parte del Mare”. Dopo cinque anni eccolo tornare con un nuovo bellissimo album, “Vitamia”, sentiamo cosa ci racconta.

Vorrei cominciare dalla copertina del disco che ti ritrae dietro una vetrata, una foto in cui ti si vede e non ti si vede, c’è un motivo dietro questa scelta?

Mah, un motivo… banalmente è una foto che mi piaceva, io sono molto refrattario a mettere una mia immagine sulle copertine, quindi è stato un buon compromesso tra chi voleva mettere assolutamente una mia foto e il non essere invadente.

Il titolo “Vitamia”, invece, scritto così tutto attaccato?

In realtà il titolo doveva essere “18 mila giorni”, perché quella era l’età che avevo quando ho cominciato a pensare e a scrivere questo disco poi, dato che sono lento di scrittura e i giorni sono diventati 19 mila e più, ho scelto così questa parola “Vitamia” tutto attaccato, perché non è ovviamente un disco che ha nessuna pretesa di essere il riassunto di un qualcosa, meno che mai di una vita seppure non così straordinaria come la mia. In questo disco ci sono però degli appunti di percorso, un po’ di passato, molto presente e anche una canzone che contiene questa parola Vitamia, che è una specie di laica invocazione per un futuro in cui sia pensabile il futuro di nuovo.

Perché in effetti “Vitamia” non è il titolo di una canzone, ma è solo una parola che sta dentro una canzone.

Si, fa parte di una canzone intitolata “18 mila giorni”.

Canzone che hai voluto dedicare allo scrittore e amico Erri De Luca.

L’ho dedicata a Erri De Luca perché lui e quelli come lui, in piccola parte anch’io, hanno vissuto una stagione, mi riferisco agli anni ’70, in cui ci si sentiva parte di un movimento che intravedeva un cambiamento possibile, con tutti i limiti, tutte le contraddizioni, tutto quello che si vuole, ma la cosa fondamentale era quella, c’era una percezione, una voglia di cambiamento e di futuro. Ovviamente non è che spero che tornino quegli anni, perché gli anni passati è bene che stiano dove sono, però che ci sia di nuovo quella voglia di immaginare un futuro che adesso, sinceramente, mi sembra che manchi un po’.

In effetti, in questo disco si avverte un po’ questa sensazione di non vedere la luce.

Si, io ho fatto anche fatica a scrivere in questi anni, mi è sembrato e mi sembra ancora, che c’è stato un grande passo indietro nel mondo occidentale in generale, una specie di ritorno a una sorta di medioevo. Viviamo un’epoca in cui intanto c’è tanto catastrofismo, basta pensare alle allarmanti condizioni del pianeta con tutto quello che ne consegue, c’è stato un calo d’idealità, una religione che è tornata a essere molto invasiva, invadente, integralista e che non ha molto a che fare con la spiritualità, insomma mi sono sembrati dei segnali di regressione e non di progressione. Spero quindi che arrivi davvero una luce.

Nel disco effettivamente, a parte l’incipit iniziale della canzone “Nuovo” e la gioiosa canzone finale “La giostra”, si avverte una certa cupezza.

In effetti, molte canzoni parlano di lavoro o meglio di non lavoro, perché una è una lettera di licenziamento, un’altra è una canzone di uno che sale sul tetto di una fabbrica perché licenziato. Il momento presente mi sembra più questo che altro. La prima canzone, invece, è una canzone che ho dedicato a mio figlio più piccolo, perché i figli sono una ragione sufficiente e necessaria per immaginarselo un futuro, che rende obbligatorio un futuro. L’ultima invece, “La giostra”, è una canzone che vuole essere una specie di non rinuncia a sorridere perché in ogni caso si vive e bisogna tirarsi su, per forza.

Anche se poi, come canti in questa canzone, si finisce per sorridere solo in sogno, quasi aggrappandosi a esso.

(ride) Si, un po’ si. Anche se, in realtà, non lo sento come un disco particolarmente cupo, credo solo che chi scrive o ha una qualche attività pubblica, non possa esimersi dal vedere cosa lo circonda, dal viverlo e dal descriverlo in qualche modo, un po’ come avviene con la canzone “Ventimila leghe (in fondo al mare)”, che parla in modo ironico della secessione.

Bellissima quella canzone, perché da un’idea semplicissima, è nata una storia stupenda.

Guarda è’ talmente assurda questa storia della secessione, è una storia tragicomica, direi che questi sono stati proprio anni tragicomici per certi versi.

Una canzone che mi ha incuriosito, invece, perché la trovo un po’ inquietante, è “Aquadub”.

“Aquadub” è un testo che avevo scritto per un batterista che è anche un caro amico e si chiama Philippe Garcia e che, quando non suona con me, suona musica dub. Mi aveva chiesto un testo e avevo scritto questo, poi ho deciso di metterla, perché in realtà la sento collegata con quella che viene dopo “Sottosopra”. Questa canzone è come il ricordo del bambino che c’è dentro di noi, parla di quest’uomo che sta ricordando il bambino che c’è dentro di lui, mentre in realtà si trova, da solo, sul tetto di una fabbrica a parlare con un bambino.

Interessante, non avevo colto questo passaggio davvero molto bello, invece “Lele”? Com’è nata?

“Lele” è una storia vecchissima, è una canzone che risale a trentacinque anni fa e nasce dalla lettura di un articolo di un giornale che si chiamava La Gazzetta del Popolo. Un giorno, su questo giornale, c’era stato un trafiletto in cui si parlava del suicidio di una donna, madre di alcuni figli, l’articolo era una specie di rimprovero fatto a questa donna che aveva deciso, di farla finita, pur essendo madre di figli. Allora esistevano ancora i matrimoni per procura e c’erano delle donne del sud che sposavano contadini del nord, in questo specifico caso si trattava di un contadino delle Langhe. L’ho registrato ora, perché adesso non si parla più delle donne del sud Italia con uomini del nord italia ma resta comunque il disagio delle donne del sud del mondo che vengono qua. Nuto Revelli ha scritto un bellissimo libro in cui ha intervistato queste donne del sud e che s’intitola “L’anello forte”, m'è piaciuto sia il libro sia il titolo, perché rimane vero che le donne sono l’anello forte della società, però sono anche quelle che subiscono di più ogni momento complicato della società, ancora oggi.

E’ bellissimo, in questo brano, l’intervento finale di Mario Brunello con il violoncello.

Beh, lì Mario Brunello, grandissimo violoncellista, mi ha fatto questo regalo e trovo il suo intervento come una specie di sudario messo pietosamente sopra questa donna che decide, di farla finita.

Un’altra canzone che a me piace molto, è “Dimestichezze d’amor", dove credo che ci sia una ricercatezza incredibile nell’uso delle parole.

Quella è una canzone di serenità, per una volta tanto in questo disco, che va d’accordo con i miei anni e le storie che durano da molto tempo, ma, dentro le quali però, si mantiene una fiamma accesa. Una canzone serena e frizzante per certi versi.

E questa scelta del titolo “Dimestichezze d’amor”, che è bellissimo, secondo me?

Perché l’innamoramento di per sé non ha nessuna monotonia possibile, non si è mai veramente abituati quando si è innamorati, è un periodo in cui tutto è una specie di apice. Negli amori che durano per tanto tempo, c'è invece come un’abitudine, una dimestichezza quindi con la quotidianità che però non frantuma l’amore. Questa è la ragione del titolo.

La canzone “Di niente, metà”? Sembra un po’ il contraltare di “Dimestichezze d’amor”.

Si è il contrario, è una canzone che parla di una cosa abbastanza complicata che è questa, io faccio parte della generazione che per prima ha votato la legge sul divorzio e ha anche approfittato di questo istituto, la prima generazione, quindi, che ha avuto la possibilità di interrompere un qualcosa che prima era considerato indissolubile. Continuo a pensare che è giustissimo e rivoterei la stessa cosa, è vero però anche, che non siamo stati capaci di proporre una vera alternativa all’istituto matrimoniale, quindi in certi casi il divorzio, soprattutto quando ci sono figli, lascia degli strascichi molto spiacevoli, anche molto dolorosi. Qualche volta poi, probabilmente, le separazioni sono un po’ affrettate dal fatto che è possibile farle, c’è molta più difficoltà a costruire e rispettare i tempi altrui, che non mollare tutto. Insomma è una canzone un po’ complicata ed è stata complicata anche da scrivere.

Per questo, alla fine, come dici tu, ci si trova a dividere il niente.

Si, finisce così, finisce sempre che si è meno della metà.

E’ stato difficile scrivere questo disco dopo aver vinto la Targa Tenco con “Da questa parte del Mare”, un disco per altro monolitico, un concept album sul tema dell’immigrazione?

E’ stato difficile scrivere, ma non perché quel disco avesse vinto il Tenco, io sono stato molto contento di avere ricevuto questo riconoscimento, ma …

Ti auguro anche non sia l’ultimo riconoscimento …

Non è questo. Vedi, non è che i riconoscimenti rendano i dischi migliori o peggiori, solleticano, diciamo così, il tuo amor proprio, il tuo egocentrismo e in tal senso io sono come tutti gli altri, sono stato contento ma non è questo il punto. Non metto “Da questa parte del mare” come termine di paragone, certamente però è stato un disco che ha discretamente prosciugato, perché obbligarsi a scrivere su un unico tema un disco intero, per me è stato difficile. Ho capito quanto fosse grande De Andrè, dalla difficoltà che ho avuto io nello scrivere quel disco, se penso che lui, di dischi monografici ne ha fatti diversi e tutti molto belli, non posso che dire che era davvero un grande. E’ stato quindi difficile riprendere, per l’epoca che stiamo vivendo e perché dopo quel disco ero abbastanza svuotato di mio.

C’è stata dunque molta difficoltà a riprendere a scrivere canzoni.

Si, soprattutto nel riprendere con la scrittura, d'altronde io non sono mai sicuro se poi scriverò altre canzoni o un altro disco …

Non vorrai anche tu annunciare il ritiro …

No no, io non annuncio niente, dico solo che non ho mai stipulato contratti per più di un disco alla volta, perché non so mai se poi scriverò ancora. Io scrivo solo quando ho l’impulso irrefrenabile a scrivere e questo non vuol dire che io produca delle cose migliori, solo che scrivo quando mi sembra di dover dire qualcosa innanzitutto a me stesso. La canzone ha questo privilegio, così come qualunque creatività, tu dipingi un quadro, ci metti una tua emozione e poi questa emozione la puoi guardare perché l’hai dipinta. Se scrivi una canzone poi, la puoi cantare e l’emozione, quando poi canti la canzone, torna fuori. Questo è il rapporto che ho con la canzone, però non dico mai, a priori, che farò un altro disco e non ho mai accettato che qualcuno mi dicesse devi fare un disco ogni due anni o ogni tre anni. Quando me l’hanno proposto, ho detto no. Tornado alla domanda, no io non annuncio che smetto, credo che non lo annuncerò mai, non penso …

E voglio anche sperare che non smetterai mai di scrivere canzoni, perché dal tuo primo disco “Montgolfières”, che ho apprezzato da subito quando in Italia eri ancora uno sconosciuto, a questo “Vitamia” hai davvero inanellato una serie di ottimi lavori …

Mah, io credo che ognuno di noi utilizzi qualche modo alternativo per provare a raccontare soprattutto se stessi e il non dicibile a parole. Di fronte a un’emozione anche abbastanza banale, come un bel tramonto, ad esempio, anzi l’ennesimo bel tramonto, uno può scattare una fotografia, un altro bacia la sua ragazza, un altro piange, un altro ride, a me viene di scrivere una canzone, l’ho sempre fatto anche prima che iniziassi a pubblicare dischi e penso che lo farò, anche se dovessi non più pubblicarne.

Quando hai iniziato a scrivere le tue prime canzoni?

A tredici anni, quando ho avito la mia prima chitarra.

Molto presto ...

Si, da prestissimo, non saprei neanche dire perché, ma evidentemente è stato il mio modo di raccontarmi queste cose che non riesco a dire altrimenti.

Adesso fai ancora il ferroviere?

No, mi sono licenziato nel 2007. Ho fatto venticinque anni di ferrovia e ho smesso soltanto perché, anche con il part-time, non riuscivo più a far le due cose. Avevo troppi concerti e da una certa età in avanti, banalmente, diventa molto più faticoso lavorare ad esempio la notte e partire poi, il mattino seguente, per andare a suonare magari in Germania, in Francia o anche solo in Italia. Ho dovuto perciò scegliere e anche in modo abbastanza travagliato, anche con dispiacere, perché quello è un lavoro che è un lavoro, avevo dei colleghi con cui mi trovavo benissimo, però non ce l’ho fatta a fare entrambe le cose. L’ho fatto per molti anni, dal ’95 fino al 2007.

Leggo dal comunicato stampa, che per la promozione del disco hai delle date imminenti in Italia.

Si, sarò ad esempio a Genova, Torino, Varese, Roma, Sorrento, Milano al Teatro Dal Verme a dicembre e poi anche all’estero come sempre.

Perché tu sei nato artisticamente all’estero.

Si, ho pubblicato il mio primo disco in Francia e questa è una delle ragioni per cui ancora adesso, vado a fare molte date all’estero, l’area francofona del mondo è abbastanza vasta, se funziona a Parigi vuol dire poi che funzionerà anche a Ginevra, Bruxelles. Parigi poi, vuol dire anche Vienna, Montreal, New York, diciamo che è andata così.

Come mai questo tuo successo all’estero ancor prima che in Italia?

Nel mio caso è stato abbastanza casuale, i primi che mi hanno fatto una proposta seria e per me accettabile sono stati quelli della Label Bleu, un’etichetta che adesso non c’è più, che faceva dischi di jazz e che in quel periodo ha deciso di cominciare a pubblicare dischi di canzoni con il mio disco “Montgolfières”. Il disco ha avuto delle critiche buonissime, i primi concerti in Francia sono andati bene, è arrivato l’Olympia quando ancora c’era il vecchio Olympia, quindi questo ha proiettato il tutto abbastanza lontano. E’ stato comunque un percorso abbastanza casuale, perché io ho fatto il mio primo disco che avevo trentasei anni suonati …

Avevi però già vinto due premi importanti.

Si, a Recanati, nel ’93 era la prima volta in pratica che facevo sentire le mie cose a qualcun altro, avevo mandato qualcosa così per curiosità, per capire se quel che scrivevo poteva avere un senso anche per qualcun altro e ho vinto questo premio per due volte. La prima volta c’è stata anche qualche etichetta italiana che si è proposta, ma non ero convinto, secondo loro poi dovevo cambiare tutto. La seconda volta, nel ’94, una produttrice francese mi ha cercato e mi ha detto che c’erano delle case discografiche francesi che erano interessate e che avrebbero pubblicato il disco. Abbiamo scelto insieme la meno glamour di tutte, questa etichetta che pubblicava jazz con nomi tipo Enrico Rava, Paolo Fresu e altri, proprio perché avevano un approccio molto più tranquillo, non c’era bisogno di fare nulla se non una normale attività musicale, senza fare sfaceli di televisione o altro, che io non avrei voluto fare.

Alla fine, per fare un disco in Italia hai dovuto aspettare nel 2000 la pubblicazione di “Il valzer di un giorno”, il tuo quarto disco.

Avrei potuto farlo anche prima, però è andata così. “Il valzer di un giorno” è un disco che ho fatto appunto in Italia e che avevo pensato per il solo mercato italiano, perché c’era il problema dei dischi troppo cari e il disco era stato concepito per essere distribuito nelle edicole, c’erano ancora le lire e mi pare costasse 10.000 lire. Poi, in realtà, Harmonia Mundi quando lo sentì, decise con mia grande sorpresa, di pubblicarlo in tutto il mondo. Ero stupito perché in quel disco c’erano anche delle poesie di Pier Mario Giovannone, che nel disco suonava con me la chitarra, che io leggevo nel disco. Io stesso dissi a Harmonia Mundi di non sapere quanto potesse interessare un disco così a un americano, un tedesco, un austriaco. Loro mi dissero che gli andava bene così ed ebbero ragione, perché”Il valzer di un giorno” è stato il mio disco che ha venduto di più, penso che abbia superato abbondantemente le 100.000 copie ed è stato una specie di caso.

Tra l’altro era un disco non d’inediti ma di tue canzoni già note al pubblico, qui quasi spogliate di tutto …

Si, sono state eseguite con due chitarre e la mia voce.

Hai anticipato in qualche modo il tuo disco “Solo dal vivo”?

In merito a “Solo dal vivo”, tornavo da una tournée in America e non sapevo neanche che stessero registrando, si era all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il concerto è stato registrato come avviene per tutti i concerti scopo archivio, poi mi hanno mandato il cd ed io, quando l’ho sentito, mi sono detto: “Questo potrebbe essere il mio disco dal vivo”, mi avevano già chiesto diverse volte di farlo, ma non ero mai abbastanza convinto. Invece, in quella sera a Roma, l’ultima data dopo una tournée infinita, tornavo finalmente a casa, c’era davvero una specie di tranquillità anche esecutiva. Così è nato questo disco “Solo dal vivo”, di cui sono molto contento e che è andato molto bene.

Gianmaria Testa