Giangilberto Monti: Entrevista del 25/11/2019

Publicado el: 25/11/2019


Giangilberto Monti: maledetti francesi io vi amo!

Ispirato all’omonimo successo editoriale del 2018, è appena uscito, su etichetta Freecom, il nuovo album di Giangilberto Monti, intitolato MALEDETTI FRANCESI, in cui lo chansonnier milanese è accompagnato dalla voce e dal pianoforte di Ottavia Marini. Si tratta di ben diciassette canzoni che riassumono il suo grande amore per la canzone impegnata d’oltralpe.

Vorrei cominciare dalla copertina che raffigura gli occhi degli artisti francesi che hai voluto racchiudere in quest’omaggio alla canzone impegnata d’oltralpe, hai scelto gli occhi perché specchio dell’anima?

In realtà la copertina è la stessa del mio libro omonino, pubblicato da Miraggi nel 2018, ma certo gli occhi sono un po’ il biglietto da visita di ognuno e in questa raccolta c’è davvero un secolo di storia della canzone francese, dal 1880 al 1980, anche se io in realtà mi sono concentrato soprattutto sul periodo che va dal dopoguerra in poi.

Il titolo Maledetti Francesi può essere letto facendo riferimento a quei poeti francesi da sempre considerati maledetti, ma anche un “maledetti francesi che amo così da non riuscire a farne a meno”, giacché da sempre la tua musica ha girato intorno a questi artisti.

Beh, maledetti francesi perché da sempre Rimbaud, Baudelaire e Verlaine sono considerati i poeti maledetti, quelli da cui trassero poi ispirazione i vari artisti che sono presenti nel disco, uomini ma anche donne, perché spesso si pensa alla canzone francese al maschile ma vi sono state molte voci femminili da Juliette Gréco ad Édith Piaf tanto per citarne un paio. Le figure femminili sono state così importanti che in questo disco ho voluto vi fosse una presenza femminile poi, certo, ci sta anche la tua accezione, perché il titolo è volutamente provocatorio. E’ vero la loro è stata una presenza fondamentale nella mia vita di chansonnier, anche se ciò non ha impedito che io scrivessi negli anni canzoni mie.

A proposito di donne, in questo disco hai voluto con te Ottavia Marini, hai scelto lei perché già la conoscevi?

In realtà mi è stata presentata dall’attore Walter Tiraboschi, con cui aveva lavorato, e s’è rivelata una scelta molto azzeccata, pur provenendo dalla classica, è una grande pianista, con la sua voce, per altro un po’ fuori del comune, ha però dato un importantissimo contributo nei duetti. Non faccio più da anni il produttore, in tal senso direi che ho già dato, ma se dovessi segnalare una valida artista, farei volentieri il suo nome, per la grande sensibilità dimostrata nell’affrontare un mondo musicale non suo.

Dal punto di vista musicale si può definire questo disco il più francese tra i tuoi? Per l’impianto musicale su cui si fonda?

Sì, in un certo senso sì, perché piano, chitarra e le nostre due voci, registrate in presa diretta, con solo qualche passaggio ripreso in studio, hanno voluto dare quell’atmosfera che si percepiva a chi entrava in un locale parigino in quegli anni, è in tal senso vero, autentico.

Una cosa che mi ha colpito è l’alternanza italiano-francese nel cantato, senza discontinuità, tanto che, non so se per la bellezza poetica dei testi originari o la bellezza delle traduzioni, quasi non si capisce più quale sia il punto di partenza, se le canzoni siano nate in francese o in italiano.

La scelta di alternare francese e italiano è derivata dagli spettacoli dal vivo, dove questo espediente ha funzionato molto bene, in effetti, quello che dici è vero, perché c’è dietro un grandissimo lavoro nelle traduzioni, negli adattamenti dal francese all’italiano, nel cercare di rendere il senso di citazioni di doppi sensi, calembour, altrimenti sarebbero delle semplici cover e non è certo il mio intento.

Ho visto che molte traduzioni sono opera tua o sbaglio?

Lo sono tutte in realtà, qualcuna magari in collaborazione come Parigi Canaille firmata anche da Alessio Lega, oppure nel caso di Les amants d’un jour vi era già una traduzione, intitolata Albergo a ore, opera straordinaria dello stesso Herbert Pagani o di Le méteque di Moustaki che già era stato tradotto e cantato come Lo Straniero da Bruno Lauzi o Le Gorille di Brassens già tradotto e interpretato da De Andrè.

Il disco è nato da un lavoro di coppia, questa collaborazione tra te e Ottavia Marini e quindi sarà portato in giro in coppia?

Sì, certamente, non avrebbe senso fare diversamente, per altro si è già fatto perché in realtà lo spettacolo è venuto prima del disco la cui registrazione è stata voluta da Jean-Luc Stote, che ne ha curato le immagini da cui è nata anche Paris Canaille, una mostra dal 13 novembre a Milano nei locali dell’Institut Français.

Nel sito di Miraggi Edizioni, l’editore scrivendo di Maledetti Francesi fa riferimento a un mondo che “ha portato un messaggio vitale, anarcoide, canagliesco, che forse non esiste più”, ma davvero questo mondo poetico musicale appartiene a un passato che non c’è più o, invece, può ancora dirci molto.

No, credo che quel mondo, che aveva connotati così diversi dai giorni nostri abbia però ancora molto da dirci, in termini d’ideali e di umanità se mi guardo intorno, se ascolto tanti colleghi cantautori non a caso, ritrovo tanti riferimenti a quel mondo.

C’è, tra tutte le canzoni che hai scelto di inserire in questo disco, una cui non riusciresti a rinunciare?

Beh, una domanda difficile, direi due allora, la prima Allo Chat Noir che è in realtà Le Chat Noir di Aristide Bruant, uno chansonnier che a differenza degli altri non si limitava a eseguire canti tradizionali, ma che scriveva testi e musiche e che nel 1881 fece nascere, in un colpo solo, cabaret e canzone d’autore, la seconda Parigi Canaille per quell’atmosfera così scanzonata e perché ci presenta un Leo Ferré inusitatamente ironico o, forse per meglio dire, sarcastico.

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