Francesco Giunta
Era nicu però mi ricordu
La Sicilia secondo Francesco Giunta, terra dolceamara
Quando capita la fortuna di avere tra le mani un disco come questo e vieni a sapere che, se esiste fisicamente, è solo grazie alla testardaggine di un coraggioso produttore di Nicosia, che risponde al nome di Alfredo Lo Faro, capace con la sua etichetta Music Made in Sicily di promuovere i migliori artisti siciliani nel mondo, quasi quasi ci si ricrede sul fatto che in Italia nessuno investa più nella musica di qualità.
Questa premessa, oltre che doverosa, direi che è necessaria per capire la genesi di questo nuovo disco di Francesco Giunta, un’operazione sicuramente lontana da qualsiasi immediata logica di mercato.
“Era nicu però mi ricordu” è, se vogliamo definirlo così, un remake, un rifacimento di “Li varchi a mari” un disco di Francesco, pubblicato nel lontano 1991.
Detto questo però, si rende necessario aprire una parentesi, perché penso che a pochi il nome di Francesco Giunta dica qualcosa. Se poi, come ho fatto io, provate a cercare notizie di lui attraverso il motore di ricerca google (beh, concedetemi la pubblicità neppure tanto occulta), beh vi accorgerete che trovate solo la sua pagina Facebook che, laconicamente, dice:
“Sono nato a Palermo (agli inizi della seconda metà del secolo scorso) dove vivo e opero ormai da diversi anni nel campo del recupero del patrimonio linguistico e musicale siciliano, sia come autore e interprete che come editore e produttore.”
Beh, si sa che i palermitani sono uomini di poche parole ….
Scherzi a parte, il suo sito ufficiale www.francescogiunta,it non è, al momento, di grande aiuto, poiché in stato “Under Costruction” (in realtà Francesco, contattato via mail ha assicurato che sarà a breve nuovamente in linea).
Cercherò di riassumere in due righe quanto può essere utile a capire o, almeno a cercare di comprendere questa strana operazione, quest’atto di amore di Lo Faro nei confronti della canzone dialettale siciliana.
Tornando a “Li varchi a mari”, questo oltre che il titolo dell’opera originale era anche quello del primo dei nove testi in dialetto siciliano che, impreziositi da musica e interpretazioni indimenticabili, costituivano la raccolta. Seguirono poi altre tre raccolte: nel 1992 “Per terre assai lontane” in cui i confini di questo viaggio a mare si dilateranno a dismisura, per tornare nel 1994, con “Porta Felice”, a una metafora del viaggio come pellegrinaggio – esplorazione – ricerca entro i confini di una città come Palermo. Infine arriverà “E semu ccà”, del 1997, in cui respiro della memoria, impegno civile, slancio lirico si fondono in immagini e sonorità di grande effetto, grazie anche alla testimonianza significativa di Pino Battaglia, poeta tra i più amati del secondo novecento, che affiderà a quell’incisione i suoi frammenti di parole (Morti ciuciulianu a la cunculina …).
Poi, un lungo silenzio a livello discografico, durante il quale però Francesco non se n’è rimasto certo con le mani in mano, poiché da artista “integrale” quale da diversi anni è, si è impegnato nel recupero del patrimonio linguistico e musicale siciliano, sia come autore e interprete sia come ideatore e curatore dell'etichetta discografica "Teatro del Sole". Insomma, la musica prima di tutto, l’impegno artistico aperto anche ai grandi temi d’oggi, la riflessione sempre viva sulla cultura tradizionale e sui suoi protagonisti (tra tutti, Rosa Balistreri), occupano da sempre la sua esistenza, ma con discrezione, non rumorosamente come spesso oggi accade.
Eccoci allora a questo disco, in cui Francesco è supportato da un’intera orchestra, quella del Conservatorio di Palermo, diretta da Valter Sivilotti, che ne ha curato anche gli arrangiamenti, impreziosendo di molto le canzoni di Francesco, che per altro erano già ricche di melodia nelle loro vesti originarie.
Rispetto ancora all’originale, troviamo una nuova canzone “Suli chi spacchi”, una duplice interpretazione (con differente orchestrazione) di “Iu c’haiu a tia, “Terra senza poesia” che è l'introduzione recitata di un brano più lungo presente nel suo terzo disco ("Porta Felice" del 1994, disco "corale" interamente alla Città di Palermo), manca invece “Xicara” un brano strumentale.
“Suli chi spacchi”, l’inedito, aperto da una dolcissima introduzione dell’orchestra, è quasi un inno alla vita, descrive quella sensazione di stupore, quasi di estasi, nel sentirsi parte integrante del creato “E sugnu petra sutta / acqua chi scurri / pezzu di celu nuru / ventu chi curri / e sugnu nègghia / e acqua di funtana / armali, fangu / rina e terra sana”.
Il brano si può in un certo senso ritenere tematicamente legato al già citato “Iu c’haiu a tia”, anche qui c’è il soffermarsi sul senso di ammirazione e di trepidazione che se ne ricava pensando all’amore e al sentirci in un certo senso artefici del nostro esistere dentro un qualcosa che è molto più grande di noi, il tutto attraverso versi meravigliosi “Lu suli s'ʹaffruntò / quannu nascisti tu / e dissi nna la terra / vinni jornu, un scura cchiù / Si chiànciri d'ʹamuri / è chiànciri pi tia / lu chiantu miu sarà / la me felicità”. Questo brano, nel disco, è interpretato in due diverse versioni, una accorata e passionale forse più rispondente al periodo in cui è stata scritta (più di trenta anni fa) e un’altra dall’atmosfera più intimista, più legata al Francesco di oggi.
Di “Terra senza poesia” riporto per intero il testo: “Vitti na terra senza rignanti / e nuddu ristava câ panza vacanti / Vitti na terra senza surdati / e un c’èranu morti mmenzu a li strati / Vitti na terra senza dinari / e ognunu campava cuntentu i campari / Vitti na terra senza poesia / chi vuci e chi chianti dda genti facìa!” sia perché così è riportato all’interno della copertina del disco quasi a suggello dello stesso, sia perché racchiude in se il modus operandi di Francesco, il suo amore viscerale per la Sicilia e la sua lingua, ma allo stesso tempo anche l’amore odio per quei siciliani che non s’indignano e non si ribellano alle tante storture.
Queste dunque le novità rispetto a quel disco del ’91, ma vale la pena parlare anche di altri brani come ad esempio “Rosa”, una dolce ninna nanna dedicata a Rosa Balistreri e scritta proprio quella notte di settembre in cui si spense, breve ma bellissimo il testo “Vuci di ciaca e ciatu duci / occhi di matri e cocci i luci / canta ca passa prestu la nuttata / squagghia lu nvernu forti e la ilata / Ciuri di scògghiu, sali e spina / volu d'ʹaceddu, terra e rina / dormi ca passa prestu la nuttata / dormi... squàgghia lu nvernu e la ilata”. C’è davvero tutto l’amore e la profonda ammirazione di Francesco nei confronti di quella che è stata più che una musa ispiratrice per il suo mondo musicale.
Come non citare poi “U panaru fori usu”, il brano che apre il disco, meraviglioso per la sua struggente malinconia che, attenzione, non è tanto nostalgia per un tempo passato che non tornerà più, quanto un sommesso grido di sconforto e di dolore perché ormai, in questo presente, quei rapporti umani, quelle città a misura d’uomo descritte nei versi “E la strata pareva un tiatru / mentri i matri facèvanu a spisa / un panaru chi cala e unu isa / e oramai un nni càlanu cchiù” sembrano non essere più possibili.
Su questa stessa lunghezza d’onda sono anche altre due canzoni “Ê tempi chê tazzi” e “Fumu di castagni caliati”, ancora un tuffo nel passato, nella propria esperienza, la prima partendo dal sentire risuonare nell’aria parole oramai fuori uso “Ê tempi chê tazzi / si chiamàvanu cicari / un c'ʹera una tazza / di mPalermu a Vicari”, parole però non vuote o peggio morte, ma che racchiudono in se un mondo ahimè scomparso “E iu ti dumannu / la cìcara ora unn'ʹè? / Grapi lu stipu / e nni trovi a tinghi-‐‑tè”, la seconda attraverso i ricordi di profumi e sapori lontani nel tempo “Fumu di castagni caliati / chi sapuri si vi li manciati / mègghiu su di li cucciddati / sempri càvuri ccà li truvati”.
“Li varchi a mari”, invece, attraverso i versi “Signuri lu timuni affidu a tia / e reggi forti tu la varca mia / nni scanzi di timpesti e timpurali / di mari forti e ventu maistrali” e una musicalità a tratti vibrante e vigorosa, resa magnificamente dall’orchestra, ci racconta la lotta in solitudine dell’uomo contro le insidie del mare, quel suo cercare un conforto dal cielo, quindi una metafora dell’umano vivere e soffrire.
“Suli e ancora suli / e ntornu l'ʹàrbuli / su tutti nciuri / terra di sangu e di suduri”, così si apre “Li me jorna”, canzone tra le più belle in assoluto del disco per quella musica lacerante e quei versi capaci di comunicare all’ascoltatore quel senso d’intimo dolore che nasce nel vedere la propria terra tanto sofferente quanto colpevolmente immutabile, da far sembrare “li me jorna tutti uguali”.
Una Sicilia colpevolmente statica, per l’indifferenza di tanti siciliani e anche di quell’opportunismo comune però direi un po’ a tutta l’Italia, spiegano la rabbia espressa da Francesco in “Quannu è guerra” attraverso quel “j’accuse” in siciliano “Ma com'ʹè côn ghiccati vuci”. Splendida, di forte impatto emozionale.
Di fronte a un passato e a un tessuto sociale in cui l’uomo era considerato comunque un valore, un presente in cui non si riconosce, un futuro che è “tutto carte da decifrare” volendo rubare un’espressione di un altro poeta della canzone, a Francesco non poteva che restare una scelta, ancor più radicale di quella svolta da Pasolini con la sua Trilogia della Vita, ossia guardare a un mondo primordiale, preistorico, in cui gli esseri umani vivevano spogliati non solo di ogni bene materiale ma fisicamente nudi, una nudità che però non destava in loro alcuna vergogna, ma anzi li spingeva a un amore puro, forte, capace di far superare ogni ostilità circostante “Tra àrbuli e pitruna / e scrusci di funtana / l'ʹomu la vitti sula / si com'ʹè mia pirsuna / Poi si cci avvicinava / cu vrazza stinnicchiati / carni dintra li carni / li primi nnammurati”. Così, introdotta da un tambureggiare primordiale, con sonorità prima scure poi più dinamiche e arabeggianti, “Tra àrbuli e pitruna” chiude con intensità questo bel lavoro.
Vale davvero la pena affrontare questo “remake” del lontano “Li varchi a mari” di Francesco Giunta, sia perché all’ascolto si dimostra così originale da sembrare un qualcosa di totalmente nuovo, sia perché rappresenta un grande ritorno in campo di questo indomito cantore della Sicilia, dei suoi pregi si, ma anche dei suoi tanti mali, primo fra tutti, forse, proprio quel sentimento di mesta rassegnazione all’immutabilità, proprio la stessa raccontata magistralmente da Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo “Il Gattopardo”.
Parafrasando i versi di una canzone molto popolare e divertente dello stesso Francesco, direi che questo disco è “Troppu very well”.
Video integrale del concerto tenutosi il 30 dicembre al Teatro Politeama di Palermo:
Francesco Giunta
Era nicu però mi ricordu
Canciones:
- 1) U panaru fori usu
- 2) Iu c’àiu a tia (quannu nascisti tu!)
- 3) Rosa
- 4) Suli chi spacchi
- 5) Ê tempi chê tazzi
- 6) Iu c’àiu a tia (lu suli s’affruntò…)
- 7) Li varchi a mari
- 8) Li me jorna
- 9) Terra senza poesia
- 10) Quannu è guerra
- 11) Fumu di castagni caliati
- 12) Tra àrbuli e pitruna
Información tomada del disco
Testi e musica Francesco Giunta.
Per i brani 5, 7 e 11, musica Francesco Giunta e Giuseppe Greco
Elaborazioni musicali Valter Sivilotti liberamente ispirate alle musiche originali di Giuseppe Greco e Francesco Giunta
Direzione Valter Sivilotti
Assistente musicale Caterina Croci
Elaborazione musicale e Direzione “Iu c'àiu a tia (lu suli s’affruntò…)” di Domenico Riina
Labmusic Recording Studio - Palermo
Mixaggio Antonio Zarcone
Supervisione artistica Domenico Riina
Edizioni Musicali Made in Sicily
Produzione Alfredo Lo Faro
Edizioni Musicali Made in Sicily - 2012