Alexandre Ciarla è l'autore del libro "Battisti - Panella, da Don Giovanni a Hegel", di cui potete leggere la recensione nel link, un testo davvero interessante, perchè riesce a fare analisi profonde ed interessanti su un argomento poco trattato nei saggi usciti su Battisti. Lo abbiamo contattato per approfondire alcune tematiche.
A cosa si deve la scelta di scrivere un libro proprio su Lucio Battisti ed in particolare sul periodo finale con Pasquale Panella? Si tratta di una tua grande passione? Sei anche un collezionista dei suoi supporti sonori?
Personalmente cercavo un argomento abbastanza popolare e al contempo abbastanza complesso da consentirmi di esprimere uno specifico punto di vista. Quello che mi interessava era il rapporto tra le parole e le immagini. Non solo nel senso delle figure (vedi le copertine degli ellepì) ma anche delle immagini mentali quali sono quelle suscitate dalle metafore. E in questo devo dire che Panella uno che dà molta soddisfazione. Inoltre mi piaceva l’idea di un argomento un po’ controverso che richiedesse sensibilità e acume ma senza prendersi troppo sul serio.
Con i bianchi cominciai parecchi anni fa appuntandomi delle osservazioni su queste canzoni che mi parvero da subito bellissime. Passò molto tempo finché non decisi di montare un piccolo sito sul quale pubblicare alcune analisi. Fu allora che venni contattato da Renzo Stefanel il quale mi propose di lavorarci assieme.
Credo che a Renzo fosse piaciuta l’idea di creare un ponte tra il nuovo ed il vecchio battisti poiché la teoria iniziale era che le canzoni di “Don Giovanni” fossero meta-canzoni: ossia canzoni che parlano del rapporto tra cantante, autore, ascoltatrice e ascoltatore. Ciò consentiva un raffronto, quasi un dialogo, tra il primo Battisti, quello sentimentale di Mogol, e quello algido e concettuale di Panella. Infatti si poteva ipotizzare che il significato dei testi consistesse nel decostruire la figura pubblica di “Lucio Battisti” come cantante di canzonette.
Mi sembra paradossale che un libro su un artista così importante e famoso come Battisti, non abbia trovato un editore, anche considerando che sulla fase Panella non è che ci sia molta letteratura... Grazie ad internet, la distribuzione in proprio riesce comunque a dare soddisfazioni?
Eppure è così. Devo dire che dopo i primi tentativi da parte di Renzo mi sono presto stufato di contattare le case editrici e ho deciso di procedere in solitario, come per altro da lui stesso consigliatomi, visto che si era appena auto prodotto il suo imperdibile libretto inchiesta su “Anima Latina”.
Le soddisfazioni che può dare il self publishing sono diverse: prima fra tutte il fatto di non dovere niente a nessuno se non appunto ai consigli di Stefanel e alla generosità dei lettori. Se il libro funziona è solo merito del suo contenuto e del passa parola. In compenso la totale assenza di promozione e la mancanza di un editor producono vendite modeste (500 copie in un anno e mezzo di vita) e alcune sviste (per lo più errori di battitura), in questo devo ringraziare la pazienza dei lettori.
Aldilà delle vendite, gli apprezzamenti sono stati invece molto positivi sia su Facebook che su Amazon (da qualche mese primo libro su Battisti per rilevanza e apprezzamento dei lettori su Amazon.it). Ho beneficiato anche di un paio di generose recensioni da parte di Michele Neri e Franco Zanetti.
Sapevo di espormi alle critiche feroci degli esperti della rete per aver osato scalfire un argomento così “delicato” e sentito ma credo che la maggioranza degli appassionati abbia apprezzato che finalmente se ne parlasse in modo serio e ponderato. Sono stati in molti a contattarmi per chiarimenti o addirittura per congratularsi, e questo fa molto piacere. La mia massima ambizione sarebbe quella di rianimare l’interesse e il dibattito attorno a questi bellissimi dischi.
Hai avuto la possibilità di ascoltare gli album nel periodo della loro uscita, oppure successivamente?
L’unico album bianco del quale sono stato, per così dire, testimone della sua pubblicazione è proprio l’ultimo del 1994: “Hegel” mi è da subito sembrato un capolavoro e dal quel punto in poi mi sono messo a risalire il tempo fino al 1986. La passione per Pappalardo e Carella è venuta molto dopo quando ho cominciato a interessarmi seriamente al significato delle parole.
Quanto tempo hai dedicato alla scrittura di questo libro e alla ricerca di informazioni?
Credo che nel 2008 già se ne parlasse con Stefanel. Dopo due o tre anni di sporadici scambi via mail lasciai perdere per altri tre o quattro anni in concomitanza con un nuovo lavoro abbastanza stressante. Quando tornai a Roma, alla fine del 2014, spronai Renzo a darmi una mano. Credo proprio di averlo tormentato in quei mesi, anche perché lui era impegnatissimo. Fino all’ultimo è stato molto paziente e generoso di consigli. Un lavoro che viene da lontano quindi ma l’ultima stesura è stata tutto sommato abbastanza rapida.
La quasi totalità dei testi di Panella sono estremamente aperti alle più disparate interpretazioni. E' quindi complesso fornire un commento che possa essere considerato universale invece che personale. Cosa ne pensi a riguardo?
Sono d’accordissimo con te, tant’è che sia nell’introduzione che nella conclusione del libro ho cercato di spiegare per bene questo aspetto non secondario. Il mio obbiettivo era appunto quello di fornire una interpretazione il più condivisibile possibile: il minimo comun denominatore di tutte le possibili interpretazioni future. Non escludo infatti che ogni canzone abbia molteplici significati.
Personalmente mi sono imposto un metodo che si è poi rivelato piuttosto efficace. Innanzitutto ho cominciato incrociando le dichiarazioni di Panella, rilasciate nelle numerose interviste, per ricostruire la sua personalissima fenomenologia della canzonetta.
Come sanno tutti gli appassionati dei bianchi, ogni album presenta una sottotraccia lessicale più evidente che connota tutte le canzoni di quella raccolta, quindi non ho fatto altro che individuarla e seguirla, ricostruendo così il filo di un discorso. Ne è emersa una concezione della canzone veramente affascinante.
Avendo analizzato così approfonditamente tutti i testi, che idea ti sei fatto sulla loro scrittura? Secondo te Panella aveva sempre in mente un preciso argomento e un filo conduttore, oppure a volte può avere volutamente composto dei testi ideati fin dall'inizio per essere ermetici a prescindere, ed avere un ampio ventaglio di significati da parte dell'ascoltatore?
È una questione molto affascinante. L’idea che mi sono fatto è che con DG(‘86) Panella abbia cercato in qualche modo di dissuadere Battisti. I testi che scrisse erano veramente al limite per l’epoca.
La tesi del libro è che l’argomento di quelle prime canzoni fosse la Canzone stessa. Dopo l’album scritto assieme a Battisti per Adriano Pappalardo (OEO’83) credo che Panella volesse finirla lì con un atto sovversivo: demolire la canzonetta cortocircuitandola dall’interno attraverso il suo più grande interprete.
Immagino Panella come Marcel Duchamp, un sicario della canzonetta che si prende gioco dell’ascoltatore mettendo la canzone nelle canzone, come fecero Beckett o Pirandello con il teatro nel teatro. Canzoni che parlano del rapporto direi incestuoso tra cantante, autore e ascoltatrice.
Quando Lucio entrò in contatto con Panella egli non era che “un personaggio in cerca d’autore”, alla ricerca cioè di qualcuno in grado di mettere in scena la sua drammatica farsa di cantante di canzonette.
Come spiego nell’introduzione anche “E già” del 1982 andava in questa stessa direzione e credo sia stato questo l’approccio con il quale Panella ha accettato il compito di imbeccare le parole al mito canoro italiano di quegli anni.
Solo successivamente, dopo la sua inattesa riconferma, Panella si sarebbe posto il problema di cosa scrivere in una canzone una volta che l’aveva completamente demolita. E lì, a mio parere, ebbe una serie d’intuizioni geniali.
Quella dell'ermetismo è stata una richiesta precisa da parte di Lucio Battisti per riscattarsi e allontanarsi dalla collaborazione con Mogol?
In effetti, nel libro avanzo anche questa ipotesi: ossia che Battisti sentisse il fardello del personaggio sentimentale cucitogli addosso da Mogol. Credo tuttavia che a lui piacesse soprattutto l’idea di cantare canzoni alle quali ognuno potesse dare il significato che preferiva e che questo significato si rigenerasse di continuo ad ogni ascolto.
Il punto, semmai, è cosa abbia avuto in mente Panella e questo lo sa solo lui. In merito al contenuto dei testi non credo neanche che Battisti fosse realmente consapevole di dove stessero andando.
Una delle prime intuizioni di Panella, forse sin dai tempi di Carella, fu quella di improvvisare le parole giocando con i modi di dire per eludere il senso unico, travisando le frasi fatte senza tuttavia perdere di mira la direzione originaria, quella che ho cercato di estrapolare da ogni canzone.
Nel libro ho dunque tentato di ricostruire un percorso coerente ed efficace usando meno ipotesi possibili, senza riferimenti strampalati o teorie astruse, messaggi subliminali spirituali o filosofici.
Ne è emerso che il referente primordiale dei bianchi è sempre lo stesso: la canzone sentimentale, le parole d’amore pronunciate senza sostanza sia dai cantanti che dal pubblico degli ascoltatori, perché nella vita reale tutti procedono a braccio, improvvisando il proprio ruolo senza sceneggiatura, senza un autore che li imbecchi.
Dopo L’A, nel 1988 a Panella non rimaneva più molto da dire quanto da fare, ossia riscostruire la canzone. Gli album successivi sono periodici ritratti della disillusione sentimentale: la coppia annoiata (LSO’90), la ragazza disillusa (CSAR’92) e il ricordo estetizzante di un amore giovanile (H’94).
Hai provato a contattare Panella per avere qualche informazione dall'autore stesso? Sei a conoscenza se Pasquale Panella abbia letto il libro?
Ho avuto il piacere di incontrare per la prima volta Pasquale Panella solo un mese fa, ci siamo intrattenuti per una decina di minuti. Non gli ho fatto nessuna domanda se non superficialmente sul contesto della genesi di “Gabbianone” e la datazione di “La pace”. Il mio scopo era di parlargli di un bellissimo progetto discografico che lo riguarda e del quale mi sono fatto porta parola. È stato molto divertente anche perché lui è simpaticissimo. Sguardo folgorante e sorrisino sarcastico. Mi ha preso un po’ in giro per il libro ma ha ammesso di conoscerne l’esistenza (perché qualcuno glie ne avrebbe «letto delle parti….»). Ovviamente non si è parlato del contenuto e lui ha comunque negato su tutta la linea che le sue canzoni abbiano un senso.
Più seriamente credo che non si possa chiedere a un autore di condividere la critica su di sé. Per questo non ho mai cercato di contattarlo in precedenza. Criticare (in senso nobile) un autore significa ucciderlo, tanto più se la critica è efficace. E questo Panella lo sa benissimo. Inoltre non è sempre detto che gli artisti conoscano tutte le implicazioni di quello che fanno, non sono filosofi (anche se un po’ Panella lo è). Magari un giorno avrò la fortuna di incontrarlo di nuovo ma dipenderà da lui se mi concederà l’opportunità di entrare nel dettaglio.
Ho approcciato l’opera di Battisti-Panella con la stessa serietà con la quale avrei approcciato Dante e Michelangelo ma senza adottare un tono reverenziale. Piuttosto mi sono attenuto a un approccio fattuale, una sorta di revisionismo letterario, e credo ne sia venuto fuori un bel ritratto del percorso artistico comune di due grandi artisti.
Hai un album preferito tra quelli del periodo Panella? E del periodo Mogol?
Sono cresciuto a Mogol-Battisti e invecchiando ascolto sempre di più gli album dal ’77 in poi (in questo momento adoro “Una giornata uggiosa”) ma se me lo richiedessi tra sei mesi probabilmente ti risponderei diversamente.
Per me Battisti è stato un genio incommensurabile. Impossibile scegliere un album rispetto agli altri, posso solo dirti che da ragazzo ho consumato “Anima latina”. Come arrangiatore poi è una lezione continua ad ogni canzone, ogni album un’anima diversa.
Per quanto riguarda i bianchi, tra la raffinatezza di DG o la freddezza di H non saprei proprio scegliere. Diciamo che come primo approccio mi sentirei di consigliare DG e di procedere per ordine cronologico. Alcuni pezzi sono di una bellezza musicale imbarazzante, ad esempio “I ritorni” (sesto brano di LSO).
Il fatto che Panella abbia scritto questi brani senza aver avuto modo di ascoltare la musica, da una parte potrebbe avere ridotto i limiti alla creatività di Panella, però dall'altra avrà reso più complessa la realizzazione delle musiche da parte di Battisti. Qual'è la tua opinione?
La penso come te ma non ho molti elementi. L’unica cosa che mi viene in mente è che in questo modo Panella abbia potuto influenzare Battisti nell’adottare uno stile improvvisato. Nel senso che così come il linguaggio di Panella rimastica se stesso lasciandosi guidare da ogni spunto, da ogni suggerimento semiotico e fonetico della frase o della parola precedente, così similmente Battisti sembra aver composto alcune sue canzoni improvvisando sulle liriche di Panella: lasciandosi quindi influenzare dagli spunti melodici che mano a mano venivano creandosi quasi casualmente, senza una reale struttura canora se non quella dettata dalla metrica dei versi. L’esempio più lampante è senz’altro “A portata di mano”, il primo brano di L’A (1988). Il risultato sono canzoni di straordinaria complessità melodica ma anche di grande efficacia nella durata poiché difficilmente esauribili all’ascolto.
Nel libro tratti solo delle copertine e dei testi. Cosa pensi delle musiche di questi album?
Sì, effettivamente per la stesura del libro mi sono imposto di non commentare le musiche proprio perché a partire dal disco L’A Panella aveva scritto senza ascoltare le melodie. Tuttavia mi sono soffermato sul raffronto tra l’interpretazione vocale e i testi.
Quanto al rapporto tra la parola e l’immagine sonora è un argomento che mi affascina e non è detto che in futuro non me ne occupi, magari con l’aiuto di qualcuno di qualificato poiché pur essendo un modestissimo musicista ritengo di non essere sufficientemente preparato per scriverne in maniera innovativa. Se qualcuno fosse interessato è pregato di farsi vivo.
Credi che in Hegel si senta il suo essere capolinea di un percorso? In qualche modo la stanchezza della collaborazione si fa sentire in questo ultimo album?
Creativamente direi proprio di no ma è pur vero che la formula per quanto variegata e complessa (gli album bianchi sono tutti molto diversi tra di loro) si stava cristallizzando e prima che la rottura con la tradizione si ribaltasse in tradizione della rottura, credo che abbiano fatto bene a sciogliersi.
Hai seguito i brani che Panella ha scritto per altri artisti, ed infatti alcuni li citi nel libro (Pappalardo, Minghi, Mike Francis, Mango). Se non mi sono perso qualcosa non ha citato la collaborazione con Enzo Carella e quelle minori quantitativamente parlando con Zucchero e altri artisti. Come album ci sono delle collaborazioni che sono all'altezza di quelle con Lucio Battisti?
In verità mi sono occupato anche di Enzo Carella che reputo un grandissimo cantante e che purtroppo (come sai) ci ha lasciati proprio quest’anno. Il punto è che nel libro ho analizzato solo delle canzoni che potessero in qualche modo illuminare la comprensione e l’apprezzamento dei dischi di Battisti. Ho preso in esame ad esempio “Malamore” come prototipo panelliano della canzone del disamore o del mal-amato, in riferimento a Guillaume Apollinaire al quale credo che Pasquale Panella si sia ispirato per la stesura sia di CSAR(1992) che di “Cantare è d’amore” di Amedeo Minghi. Questo bellissimo album del 1996 è a mio parere intimamente collegato ai Bianchi.
Perchè secondo te Panella ha inizialmente nascosto il fatto di essere autore del brano "Vattene amore di Mietta & Amedeo Minghi? Poteva esserci qualche obbligo scritto o morale nella collaborazione con Battisti che impediva la scrittura per altri? Non voleva.
Non ne ho la benché minima idea. Forse per imbarazzo? Quello che posso dire è che dal confronto tra Mogol e Panella anche al di fuori della produzione battistiana, è emerso che mentre il primo scriveva d’amore il secondo scriveva da innamorato. E parlare da innamorato può essere imbarazzante… Una delle domande principali alle quali ho cercato di rispondere è proprio questa: ossia quale è il rapporto tra le canzoni scritte per Battisti e quelle scritte per gli altri cantanti, prima e dopo la collaborazione.
L’idea che mi sono fatto è che il collante di tutte queste canzoni sia la categoria dell’intimità. Così come la straordinaria efficacia dell’interpretazione di Battisti era dovuta anche al fatto che egli cantasse come se stesse riferendosi ad una persona sola (la moglie?), ugualmente Panella non ha scritto per le masse.
Sia con Carella che con Pappalardo, attraverso Battisti e Mango, fino ad Amedeo Minghi, Pasquale Panella avrebbe cercato di restituire la voce dell’io innamorato che si esprime in un linguaggio quasi privato, comunque intimo. Se nei bianchi questo procedimento era al servizio della totale disillusione sentimentale, con gli artisti Panella ha dato voce in modo estremamente verosimile al delirio amoroso.
Nella fine del libro, critichi l'uscita del cofanetto con tutti gli album Battisti Panella in 3 cd e ti aspetti qualche altra uscita commerciale nel 2016, che poi mi pare non ci sia stata. Ma non è meglio una possibilità in più di riascolto, in particolare per chi non c'era all'epoca, che l'oblio di un ascolto distratto come quello che può dare Spotify? La sua mancanza di fisicità, il suo invogliare uno zapping sonoro non solo saltando brani, ma saltando tra artisti diversi, non sono ancora più commerciali e distanti per la fruizione di una buona cultura musicale?
Hai perfettamente ragione, infatti quella considerazione lascia il tempo che trova. Mi sono solo permesso un parere personale da parte di chi all’epoca c’era. A mio modestissimo parere Spotify è il male assoluto. Le canzoni sì, certo vanno riascoltate ma è molto interessante collocarle nel loro contesto originario. Ciò consente di passare (come dici tu) da mero oggetto di consumo a un prodotto culturale.
Il paradosso della canzonetta è proprio la sua leggerezza rivelatrice di un’epoca. Tutte le canzoni invecchiano, è nella loro essenza. E forse l’impenetrabilità di quelle dei Bianchi è un tentativo estremo di resistere alla mercificazione.
Un altro aspetto importante è quello del supporto materiale. Sia per le dimensioni che per la sua fragilità, il vecchio ellepì era come un monito: la delicatezza dell’operazione atta a produrne la fruizione rivelava sin da subito il carattere effimero ma anche epifanico della canzone.
L’ampia superfice cartacea disponibile per immagini e parole, contrapposta alla frittata vinilica da servire sul piatto del giradischi, ne svelava la doppia natura di oggetto culturale e al contempo ludico. Per non parlare dell’effetto ipnotico del moto circolare.
Vedi qualcuno in grado di poter essere considerato un erede del pop inventato da Battisti - Panella?
Non ho la competenza per esprimere un parere del genere. Ritengo tuttavia che molti cantanti siano debitori di quell’esperienza forse anche in modo inconsapevole, in particolare quelli della scuola romana: mi vengono in mente Daniele Silvestri e Max Gazzé ma anche Samuele Bersani e Francesco Tricarico…
Diciamo che tutti sono stati in un certo senso liberati da Battisti per quanto concerne la forma canzone e pesantemente influenzati da Panella dal punto di vista linguistico.
Per quanto riguarda il presente non saprei. Personalmente sono molto intrigato da Iosonouncane ma non penso ci sia un rapporto diretto.
Per assurdo non credo si debba seguire il loro esempio. Nel senso che essere fedeli a Battisti e Panella non significa riprodurre letteralmente ciò che essi stessi hanno fatto, quanto piuttosto mettere in discussione gli stereotipi attuali che sono giocoforza diversi da quelli dell’epoca, per ricostruire oggi una nuova canzone, diversa appunto sia da quella attuale che da quella di allora.